Il nonno di Gianni Minà morì, lasciando orfana quella che sarebbe diventata la sua mamma, nel terremoto di Messina. Il padre di Gianni Minà, dopo aver incontrato la futura moglie in una chiesa di Torino, città dove lui viveva e lei aveva portato una classe in gita, le mandò per tre mesi una cartolina al giorno, su ognuna una frase, e tutte insieme componevano la lettera in cui le chiedeva di poter andare a trovarla a Trieste (oggi, il tapino verrebbe accusato di stalking). A Gianni Minà insegnò a nuotare un paraplegico, in una piscina di Torino.
Gli americani hanno un modo di dire, the first line in my obituary, la prima riga del mio coccodrillo. La cosa più importante che hai fatto, quella che chi scrive l’articolo sulla tua morte citerà prima di tutte le altre. La prima riga del coccodrillo di Gianni Minà (se un giorno dovesse morire, cosa niente affatto sicura) è una foto. L’avete vista un milione di volte: sono lui, Sergio Leone, Mohammed Alì, Robert De Niro, Gabriel García Márquez (a quella cena c’erano anche le mogli, ma nella foto sono fuori scena; se uscisse oggi, quell’immagine storica si prenderebbe uno di quei mesti cancelletti #tuttimaschi).
Lo sa anche Gianni Minà, che di lui ricordate quella foto, e quindi la sua autobiografia parte da lì (s’intitola Storia di un boxeur latino, la pubblica Minimum Fax). Ma quel che si scopre leggendola è che a Gianni Minà non serviva il ristorantino a Trastevere.
Gli americani, che hanno una parola per tutto, lo chiamano namedropping. È lo sport di chi snocciola nomi famosi, di chi nei ringraziamenti dei libri cita quella vecchia sagoma di Umberto Eco, con cui giocavamo sempre a tressette, e al telefono ti dice che purtroppo deve riattaccare, ha sotto la chiamata di Giuliano (Sangiorgi? Ferrara? Nicola?). (Minà nei ringraziamenti dice che il titolo è una battuta tra lui e Paolo Conte).
In Italia abbiamo una parola molto più bella: manuelfantonismo. Viene da uno dei tre personaggi più italiani della storia del cinema italiano (gli altri sono il Bruno Cortona del Sorpasso e il Giancarlo Iacovoni di Caterina va in città). Manuel Fantoni era l’alias di Cesare Cuticchia, quello che in Borotalco diceva all’ingenuo Verdone che lui Raquel (Welch) l’aveva vista nuda, che Richard Burton gli aveva vomitato sul tappeto («Certa gente non si può più invitare»), che Lucio Dalla era praticamente suo fratello.
Quando la Guardia di Finanza veniva a portarlo via, e persino l’ingenuo Verdone capiva che non era tutta fama quella che luccicava, Cuticchia Cesare gli spiegava: aveva «un ristorantino a Trastevere», quando veniva qualcuno di famoso si faceva lasciare una foto con dedica (era il 1982: c’erano i rullini, lo sviluppo, le stampe su cui firmare), quando il ristorantino l’aveva perso al gioco le foto se l’era tenute, «non sembra ma pure quelle servono, fanno scena».
Che Gianni Minà non fosse Cuticchia Cesare lo sapevamo già, nonostante la foto con Leone e Alì e tutto il cucuzzaro sia stata scattata proprio in un ristorantino a Trastevere. Lo sapevamo perché l’avevamo visto vicino a tutti, era Forrest Gump prima che Forrest Gump esistesse, non c’era personaggio storico del Novecento, da Castro in su, che non avesse incrociato.
C’è un filmato negli archivi Rai di Minà che fa un servizio sul set di C’era una volta in America, e vista da qui è un altro mondo, un’altra epoca, ma soprattutto un’altra confidenza: non una di quelle visite guidate con gli uffici stampa che ti fanno assistere a un ciak, ma un amico di tutti che arriva con un operatore, aspetta che finiscano una scena, e poi tutti corrono a salutarlo, nessuno lo guarda con la diffidenza che si ha per gli estranei sui set.
Quindi non pensiamo che abbia raccolto delle foto da un locale poi perso al gioco mai: non quando su un aereo per una qualche missione storica gli va incontro la hostess ed è la fidanzata di Little Tony, o a New York l’assistente elettricista della troupe con cui Minà sta facendo un programma è Luca Barbareschi; non quando Celentano gli chiede di presentargli Gianni Agnelli; non quando Massimo Troisi si nasconde a casa sua perché i paparazzi non lo fotografino con Jennifer Beals (chissà Nanni Moretti che invidia); non quando Maradona ingiunge a un giornalista argentino «Ora chiedi scusa a Minà, stronzo»; neppure quando Márquez lo sveglia alle tre di notte perché vuole che lui gli faccia incontrare Pertini – quello è il punto in cui scopriamo che non solo Minà non è Cuticchia Cesare, ma è pure uno scrittore, uno che risponde «con la voce imbrattata di sonno».
Quando sei famoso, tutti vogliono qualcosa da te: un numero di telefono d’un altro famoso, un frammento di luce riflessa, una storia dei giorni di gloria. Quel che si scopre leggendo delle novanta cartoline del padre – sublime paraculo che, davanti a una teca che conteneva una casacca di Garibaldi forata dalle pallottole, disse alla ragazza di cui era caduto innamorato «La vita è una questione di centimetri, come quelli che ci separano», e fu da quella prima paraculata che cominciò il suo diventare la signora Minà – è che la vita di Gianni Minà è un’epica.
Che quegli altri quattro, nella foto, non stavano lì col solito italiano mitomane che vuol poi poter dire «eravamo io e Bob e Mohammed», macché. È evidente che sua è l’epica, suo è il riflettore, e sua la gloria. Che quegli altri quattro sono andati a casa, da quel ristorantino di Trastevere, e si sono vantati d’aver cenato con Gianni Minà.