Victoire Gouloubi, nata nell’81 a Brazzaville in Congo, è arrivata in Italia nel 2000 con un permesso di studio: la laurea in Giurisprudenza non l’ha mai presa, in compenso è diventata una delle chef più note del nostro Paese. Dopo aver lavorato nelle brigate di cucine stellate, è approdata alla televisione, dove sul canale Gambero Rosso di Sky va in onda “Il tocco di Victoire”. Il Covid-19 l’ha rallentata come tutti, ma non ha fermato le sue vulcaniche iniziative. Dal suo sito, ai progetti più ambiziosi: «A Milano voglio aprire la mia Academy di cucina, venti allievi, avevo già il posto ma si è bloccato tutto con il Coronavirus. Poi vorrei aprirla anche in Congo e spero di riprendere a girare presto la seconda e terza serie de “Il tocco di Victoire”».
Chef Victoire, perché proprio in Italia?
La guerra in Congo era finita da qualche anno. A Vicenza c’era un mio zio prete. Sono partita con mio fratello che aveva 17 anni, tre meno di me. Avevamo un permesso di studio. In Congo ero iscritta a Giurisprudenza. Arrivata qui ho dovuto rifare gli esami e studiare per un anno l’italiano.
E la cucina?
Nel mio Paese andavano le ragazze curvy. Io pesavo 45 chili. Alle feste o ai matrimoni dei miei fratelli, siamo in 17, mi obbligavano a stare in cucina con le anziane della famiglia. Avevo la passione, ma ero diventata come una vecchia con un corpo da giovane.
Solo in Italia è diventata poi una professione?
Avevo chiesto una borsa di studio, ma ci voleva troppo tempo. Io poi odiavo Giurisprudenza. Ci teneva mio padre. Una mia zia è stata la prima presidente di Corte d’Appello del Congo. Mio zio prete mi consigliò di iscrivermi a una scuola professionale dove avrei potuto lavorare subito. Potevo scegliere di diventare parrucchiera o estetista».
Meglio la chef.
All’inizio, era solo sopravvivenza. I primi lavori estivi nei grandi hotel di Cortina, ma il mio sogno era lasciare Feltre. D’inverno facevano -17 gradi, io ero abituata ai 40 gradi. Ero la prima africana della scuola alberghiera».
Come c’è riuscita ad andarsene?
Accompagnai una mia amica che aveva appena scritto un romanzo alla Fiera di Mantova. Un giornalista gastronomico, che poi divenne il mio primo marito, mi chiese per gentilezza cosa facessi. Lui mi disse che in Italia c’erano le trattorie, i locali gourmet e poi l’alta cucina, ma questa era solo per le persone di carattere. Gli risposi che in Congo avevo visto i morti e le pallottole fischiare durante la guerra e che il carattere ce l’avevo. Lo convinsi e lui chiamò Claudio Sadler».
Chef stellato a Milano, tra i grandissimi della cucina italiana
Gli parlai al telefono. Mi disse che non gli interessavo se ero bianca o nera, se ero donna o uomo. Cercava una persona sveglia. Mi disse che potevo presentarmi il giorno dopo».