Aiutare è bello. Se fatto dall’altra parte del mondo, poi, aggiunge un’esperienza significativa alla propria vita. Ci si sente orgogliosi, bravi e impegnati. Sono tanti i giovani che viaggiano in Africa e sud-est asiatico per aiutare il prossimo, entrando per qualche settimana a contatto con le comunità più povere, attraverso progetti umanitari di associazioni di volontariato. Di solito coinvolgono giovani fra i 20 e i 30 anni, che per qualche settimana decidono di partire per portare aiuto ai bambini negli orfanotrofi o nelle scuole, insegnando l’inglese, per esempio, o aiutando nella costruzione di piccole strutture.
È lo stesso spirito che, si presume, ha spinto Silvia Romano a partire per Chakama, in Kenya, ormai più di un anno e mezzo fa. Sappiamo com’è andata, ed è un sollievo saperla ritornata fra le braccia della sua famiglia, sana e salva, dopo diciotto mesi di prigionia. Ma c’è da stare attenti quando si parla di un tema di cui non si conosce granché, quello dei progetti di volontariato nel mondo. Secondo i dati riportati in dal documentario “The volountourist” del 2015, nel mondo sono 1,6 milioni le persone che ogni anno partecipano a progetti di volontariato internazionale.
Sono numerose le realtà che portano avanti progetti di questo tipo, anche in Italia. Onlus e associazioni di vario genere che però, come ricorda la project manager di diverse ong Daniela Gelso in un’intervista a TPI, non si qualificano come vere organizzazioni umanitarie. Colpa della riforma della legge sulla cooperazione internazionale del 2014 «che ha, di fatto, riunito Ong, Onlus, fondazioni, cooperative sociali e associazioni culturali sotto un’unica etichetta, quella di Enti del Terzo Settore».
Così si è consentito a organizzazioni ufficiose di operare al pari delle altre, senza però garantire le condizioni di sicurezza e tutela per farlo. Il fenomeno è universalmente noto come “volonturismo”, crasi fra le parole volontariato e turismo. A partire dalla mancanza di copertura assicurativa, frequente in molti di questi casi, nonostante a molti ragazzi sia chiesto di dare del denaro. Come riporta lo stesso documentario, in media le persone che partono spendono tra 800 milioni e 1,3 miliardi di sterline, fra voli aerei e contributi per vitto e alloggio.
Ma non si tratta soltanto di quanto ambigue organizzazioni possano lucrare sulle buone intenzioni delle persone, o delle conseguenze che possono esserci se succede qualche problema. «I cooperanti sono professionisti retribuiti e altamente specializzati. Hanno un contratto di lavoro e sono coperti da un’assicurazione internazionale. I programmi di sviluppo in cui sono inseriti non consistono in opere di carità o assistenzialismo. Si tratta di strategie con obiettivi ben precisi», dice Gelso.
La cooperazione internazionale ha un’ottica di lungo periodo, è strutturata, e prevede percorsi di formazione specifici. Un mondo diverso rispetto a quello delle piccole associazioni, che invece offrono pacchetti standardizzati di aiuto, spalmati su brevissimi periodi.
E qui viene l’altra parte del problema. Perché spesso le persone, pur mosse da spirito di buona volontà, vengono inserite in contesti e in attività dove raramente possono dare un reale contributo. Sia per mancanza di formazione che per fattori di tempo e di contesto. «Immagina di insegnare una lingua se non hai una formazione da insegnante: a casa tua non potresti, perché allora dovrebbe essere legittimo in un paese in via di sviluppo?», dice una cooperante nel documentario.
E anche per quelle attività che non prevedono competenze specifiche, soprattutto nei contesti dove si ha a che fare con l’infanzia, la situazione è delicata, perché non è raro che i bambini che si incontrano si affezionino ai volontari. Che effetto psicologico può avere il trovarsi di fronte una persona diversa ogni settimana?
Al di là degli aspetti più tangibili, poi, secondo il funzionamento “commerciale” di questi programmi può avere un impatto negativo serio sulle comunità: rischia di drogare l’economia locale, togliere posti di lavoro alle persone del posto e di alimentare logiche di dipendenza dall’”aiuto” occidentale, oltre che di consolidare idee stereotipate di povertà.
Probabilmente non a caso il volonturismo è stato denominato come una “diversa forma di colonialismo”. In cui rientra anche una certa forma di egoismo individuale nel voler fare un’esperienza in cui “si prende più di quanto ci si lascia”. Vedere per credere: la pagina Humanitarians of Tinder raccoglie tutti gli scatti di giovani volontari condivise sull’app di incontri.
Pur volendo aiutare, insomma, il rischio è di finire per creare più danno che altro. Ma allora, bisognerebbe rinunciare del tutto ai programmi di volontariato internazionale? In realtà, secondo gli esperti il modo per farlo c’è, assicurandosi «di unire sempre i propri sogni e il proprio sano altruismo a una buona dose di coscienza e competenza, fondamentale in situazioni del genere. Di appoggiarsi ad una struttura credibile, solida e ben organizzata, un punto sul quale hanno già insistito autorevoli esperti del settore», dice Gelso. Evitando così di cadere nella trappola di organizzazioni poco serie, che potrebbero mettere a rischio l’incolumità dello stesso volontario, oltre che di perpetrare questi meccanismi distorti.
E senza dimenticare che, in fondo, ci sono anche altri modi per rendersi utili e fare del bene: essere cittadini informati e impegnati a casa propria, sapere cosa succede nel mondo, firmare petizioni, fare attività di lobbying, votare, fare donazioni alle ong o fare volontariato regolarmente a casa propria. Conclude il documentario: «Queste alternative potrebbero non sembrare altrettanto affascinanti o gloriose che un viaggio di volonturismo di due settimane in un paese esotico, ma potrebbero avere più impatto ed essere meno rischiose, fare meno danni e più bene».