Per dodici settimane sei stato dappertutto e da nessuna parte. La condizione ideale per farci impazzire. La specie che ti sei messo a inseguire non è come i pipistrelli, noi umani non sappiamo volare nel buio. La nostra intera civiltà è un giocattolo per sentirci al sicuro. E tu non ti sei limitato a uccidere, hai anche accecato i sopravvissuti. Pensa che casino che hai combinato.
All’inizio non ti abbiamo capito, poi quando ti sei messo in viaggio ci siamo accorti di che genere di turista eri. Uno che quando arriva in un posto rimane sempre in quello che ha appena lasciato. Come quando si condivide una foto su Facebook: non viaggi, ti moltiplichi. Rispetto a noi, da questo punto di vista, sei molto meno viziato. Mi pare di aver capito che non consulti le recensioni per decidere dove trascorrere il weekend. Come tutti i giovani, preferisci i luoghi affollati. Per il resto ti muovi come capita. Più che alla qualità degli alberghi è evidente che sei interessato alle persone.
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La tua visita ci ha svelato quanto il Web ci sia necessario ma anche quanto ne siamo dipendenti e quanto alto sia il prezzo della smaterializzazione dei rapporti sociali. Però noi tendiamo a dare molta più importanza al primo insegnamento che agli altri due. […] Preferiamo aprire discussioni di ordine secondario, dalle discriminazioni di genere nel lavoro remoto all’ora più adatta per il caffè quando si è in turno da casa, piuttosto che farci domande meno inessenziali.
Te ne dico una: vogliamo che i luoghi di lavoro restino uno degli spazi vivi della nostra società oppure no? Da come parliamo dello smart working sembra proprio di no. Se volessimo mantenere la centralità fisica del lavoro all’interno dello spazio-città, tratteremmo il lavoro da casa alla stregua di un estintore in caso di incendio. Eterna gratitudine, ma pur sempre un estintore. Noi invece lo narriamo ogni giorno come un viatico per il futuro, quasi fosse un vaccino buono anche per quando il fuoco sarà spento.
Ma allora: se c’è un’aura così forte che associa il lavoro digitale a un futuro sicuro e desiderabile, ne dobbiamo dedurre che auspichiamo un habitat in cui si lavorerà sempre più a umanità rarefatta, sottraendo alla condivisione fisica porzioni sempre maggiori della polis. Tutti rider, anche se non tutti in bicicletta e non tutti poveri. Funzioni di lavoro piuttosto che lavoratori.
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Magari è la strada giusta per il futuro. Però una scelta così importante meriterebbe un qualche ragionamento prima di diventare il pezzo forte dei cinegiornali. Lo smaterializzarsi delle relazioni sui luoghi di lavoro ha delle conseguenze che varrebbe la pena considerare. A maggior ragione adesso, mentre scivoliamo sul piano inclinato di una crisi che continuamente evochiamo con la stessa razionalità con cui i faraoni attendevano l’invasione delle cavallette.
Te ne dico una: meno corpi circolano nel mondo del lavoro e più si irrigidiscono le gerarchie; più si solidificano gli schemi di ruolo e più la difesa dei diritti si burocratizza. E perde. Se il corpo è il nostro primo vincolo di eguaglianza sociale, allora non possiamo far finta di non sapere che le connessioni ce lo restituiscono solo nella sua rappresentazione e che la mediazione tecnologica accentua sempre il dato simbolico, sfumando quello identitario. Se poi queste identità, già fragiline, sono isolate nella propria nicchia digitale, la debolezza collettiva non può che aumentare.
Diciamolo senza paura: spingere sull’acceleratore del lavoro in remoto significa mettersi in marcia verso un futuro dove il lavoro smetterà di essere un soggetto capace di entrare in relazione dialettica con il resto della società e con la vita democratica.
È questo che in prospettiva desideriamo? Abbiamo preso in considerazione le ricadute sulle altre parti del sistema? Sono domande che non ti riguardano perché a muoverti è l’istinto e non il desiderio, ma a noi dovrebbero invece riguardare. Anche perché a forza di smontare pezzo per pezzo lo spazio pubblico ci ritroveremo con tanti chiodi e nessun muro dove appendere la democrazia.
Dovrebbe essere l’istinto di cittadinanza, non il divide tra le aziende più o meno smart, a farci diffidare del lavoro in remoto. Dovrebbero essere l’istinto e il linguaggio, perché remoto significa lontano e invece una società è un posto dove le persone stanno vicine, non solo quando si divertono ma anche quando faticano. A consigliarlo non è la nostalgia ma la Storia. È lei a dirci che solo quando faticano facendo massa critica le persone contano qualcosa. Quando si divertono, anche se stanno tutti assieme, non contano nulla.
Tratto da “La mutazione” (Bollati Boringhieri) di Marco Bracconi, 83 pagine, 3,99 euro