Nell’abolizione rateale del Parlamento, teorizzata a tempi eroici – quelli appassionatamente “venezuelani” – dal Movimento Cinque Stelle, chissà se Casaleggio padre aveva previsto tra i vari strumenti anche la preventiva degradazione delle Camere a luoghi della chiacchiera e dello spettacolo di varietà politico.
Rimane il fatto che con il M5S al potere, in questa come nella precedente compagine, hanno iniziato a scarseggiare i voti di indirizzo parlamentare e in genere le conclusioni di dibattiti animati e animosi con un Sì o con un No comprensibile e impegnativo per l’esecutivo.
Il campo in cui si è più scientificamente dispiegata questa de-parlamentarizzazione dell’agenda governativa è stato certamente quello della politica europea, dove i governi Conte hanno dissotterrato e sotterrato non si sa quante volte l’ascia di guerra verso le istituzioni dell’Unione europea, cambiando ogni volta agenda e registro, dal sovranismo spinto e separatista all’europeismo finto-spinelliano, ogni volta recitando a soggetto.
Ma se ai tempi della maggioranza giallo-verde la sostanziale compattezza ideologica della coalizione non nascondeva particolari contraddizioni, ai tempi della maggioranza giallorossa lo stridore delle contraddizioni ha iniziato a farsi rumoroso e quindi l’esigenza di zittire il Parlamento ancora più necessaria e vitale.
Quanto succederà oggi nella discussione della relazione di Giuseppe Conte in vista del prossimo Consiglio europeo del 19 giugno conferma perfettamente questa strategia.
Iniziamo a mettere in ordine i fatti e le date.
Dall’inizio dell’emergenza Covid sono stati avviati dalle istituzioni europee programmi di ambizione e portata letteralmente epocale: dall’acquisto monstre di titoli di debito da parte della Banca centrale europea, alla nuova linea di credito senza condizioni del Meccanismo europeo di stabilità, fino al Next Generation Ue lanciato da Ursula Von der Leyen. Trainati da un’emergenza senza precedenti, in tre mesi sono successe nelle istituzioni e nei paesi membri dell’Ue cose davvero inimmaginabili prima che il Covid sbarcasse in Italia e poi in tutta Europa.
Nei tre mesi di fuoco che abbiamo alle spalle ci sono stati quattro consigli europei straordinari, anche per le modalità di convocazione e di tenuta (in video-conferenza, causa Covid) e malgrado la legge preveda che prima di ogni Consiglio «il Governo illustri alle Camere la posizione che intende assumere, la quale tiene conto degli eventuali indirizzi dalle stesse formulati» (articolo 1, comma 4, della legge 234/2012), in Parlamento non si è mai votato. Nemmeno una volta.
E neppure oggi si voterà, né alla Camera, né al Senato. Malgrado infatti la convocazione iniziale e l’ordine del giorno di Montecitorio e Palazzo Madama prevedesse quelle che dal punto di vista regolamentare si chiamano “comunicazioni del Governo” è stato sufficiente che lunedì scorso Emma Bonino annunciasse in una intervista a Repubblica la presentazione di una risoluzione sul Mes, per costringere a una precipitosa marcia indietro la maggioranza e l’esecutivo, che ha derubricato le comunicazioni del Presidente del Consiglio a una mera “informativa”.
In tre mesi il Governo ha trattato, ottenuto e a volte perfino sdegnosamente rifiutato aiuti per miliardi di euro: (220 miliardi dalla BCE solo per il 2020, 40 miliardi di fondi Bei, 20 miliardi di Sure, 36 miliardi di Mes, 173 miliardi di Recovery Fund) senza che il Parlamento abbia potuto dire una sola parola.
L’ultima risoluzione votata è stata per il Consiglio europeo del 19 febbraio, in cui si discuteva di un bilancio a lungo termine dell’Ue pari grosso modo all’1% del pil complessivo, la metà di quanto si prevede ora, per supportare il piano di emissioni necessario a finanziare il Recovery Fund. Eppure anche oggi, per la quinta volta consecutiva, il Parlamento potrà chiacchierare qualche ora, dopo il passaggio di Conte alle camere, ma non potrà dare alcun indirizzo.
La motivazione formale è che quello di venerdì non sarà un vero Consiglio, ma una video-conferenza straordinaria dei membri del Consiglio, peraltro identica a quelle che hanno rivoluzionato in tre mesi il bilancio e forse anche la storia dell’Unione europea. Ma per gli Azzeccagarbugli di Palazzo ogni pretesto è buono per giustificare che il voto sul Mes non s’ha da fare. Non avendo ancora deciso il PD e il M5S come accordarsi o scontrarsi sulla pietra dello scandalo – denigrata dai grillini fin dai tempi in cui organizzavano i referendum per uscire dall’euro – il Parlamento deve stare muto, con buona pace di tutti.