Da giorni la stampa americana non parla d’altro che di John Bolton e delle clamorose rivelazioni contenute nel suo libro («The Room Where It Happened: A White House Memoir»), a proposito del modo in cui Donald Trump metterebbe a repentaglio la sicurezza nazionale e avrebbe cercato l’aiuto di autocrati stranieri per la sua rielezione (in questo caso, in particolare, Xi Jinping). Il che è più o meno quello che è accaduto con il libro dell’ex direttore dell’Fbi James Comey («A Higher Loyalty: Truth, Lies, and Leadership»), poi con quello dell’ex assistente, nonché star del pre-presidenziale reality «The Apprentice», Omarosa Manigault Newman («Unhinged: An Insider’s Account of the Trump White House»), poi con quello del vicedirettore dell’Fbi Andrew McCabe («The Threat: How the Fbi Protects America in the Age of Terror and Trump»), e insomma, senza stare a elencarli tutti, con buona parte dei cinquantaquattro esponenti dell’Amministrazione Trump che hanno clamorosamente lasciato l’incarico prima di Bolton (cinquantaquattro è una stima per difetto, contando solo gli addii classificati dal New York Times come «principali»).
La domanda è: perché in Italia non ne abbiamo nemmeno uno? Perché, pur avendo avuto ben due governi Conte, ciascuno dei quali adeguatamente fornito di ministri, viceministri, sottosegretari e consulenti, tecnici e politici di ogni foggia e per tutti i gusti, non abbiamo mai visto nessuno di loro, i presunti «adulti nella stanza», avvertire il bisogno di andar via sbattendo la porta per denunciare all’opinione pubblica, da tutti i giornali e le televisioni del paese, lo spettacolo cui avevano assistito?
Immagino che molti risponderanno: perché Giuseppe Conte non è Donald Trump, e non è al centro di nessuno scandalo internazionale comparabile a quelli di cui è accusato il presidente americano. Obiezione che coglie senz’altro un punto – niente è paragonabile all’America di Trump – ma dimentica un dettaglio, di cui a dire il vero ci siamo dimenticati tutti quanti da mesi (e proprio questa generale dimenticanza è la migliore conferma della mia tesi).
Vale a dire che in Parlamento il presidente Conte è già stato chiamato una volta a rispondere di uno scandalo non semplicemente comparabile, ma parte integrante della stessa procedura di impeachment americana, quando al ministro della Giustizia William Barr fu concesso di incontrare i vertici dei nostri servizi segreti, senza che alcuna autorità politica italiana fosse nemmeno presente. E l’elenco delle analogie potrebbe continuare con l’incredibile vicenda della scorrazzata dei mezzi militari russi lungo la penisola in pieno lockdown e dei non meno opachi rapporti con la Cina.
Quanto all’aspetto più radicale dell’obiezione, secondo cui banalmente non ci sarebbe niente da rivelare, vuoi perché entrambi i governi Conte sarebbero stati talmente seri ed efficienti da non prestare il fianco nemmeno a un pettegolezzo piccino picciò (questa la lascio cadere senza neanche replicare, abbiate pazienza), vuoi perché in fondo da noi si saprebbe già tutto, c’è da dire che anche negli Stati Uniti, nella sostanza, non è che le rivelazioni fossero sempre così clamorose. Anzi, nel 99 per cento dei casi, confermavano o approfondivano vicende già ampiamente raccontate dalla stampa.
Il punto, a mio parere, è che la principale differenza tra l’America di Trump e l’Italia di Conte non riguarda Trump né i trumpiani, ma tutti gli altri. Il fatto è che negli Stati Uniti c’è la FoxNews, ci sono le radio, i blog e i giornali online dell’alt-right, ma ci sono anche la Cnn, il New York Times e il Washington Post, e c’è soprattutto un’enorme e ben visibile differenza tra i due blocchi, che non è solo politica, ma prima ancora di linguaggio e di cultura (nota per i social network: non sto dicendo che gli uni sono colti e gli altri ignoranti, sto dicendo che esprimono culture profondamente diverse).
In Italia, dove la campagna contro «la casta» è nata sul Corriere della sera, dove tutti i giornali hanno sempre fatto a gara per pubblicare anche le intercettazioni più irrilevanti, e in televisione sono arrivati persino a sceneggiarle e a farle recitare agli attori, questa differenza non c’è. Perché il sistema dell’informazione è uno, parla la stessa lingua ed esprime la stessa cultura, e la differenza è solo una differenza di gradazione e di bersagli (qui anche il populismo, come la legge, si applica con rigore soltanto ai nemici).
La verità è che il secondo governo Conte ha soltanto reso esplicito quello che nel primo era implicito. E cioè che in Italia la culla del populismo non è il popolo, è la casta. È al vertice delle istituzioni, del mondo della politica, del giornalismo, della cultura e dello spettacolo. L’avvocato del popolo ha goduto a sua volta, e sin dall’inizio, di molti e illustri avvocati, tutti ai vertici dell’establishment: lui domani potrà anche cadere in disgrazia, loro no.
Dunque il motivo per cui i presunti «adulti nella stanza» non corrono a denunciare quello che hanno visto a tutti i giornali e le televisioni del paese è semplicemente che non saprebbero dove andare. A meno di non volersi ritrovare a giocare allo schiaffo del soldato, e nel ruolo più scomodo. Perché giornali e televisioni riserverebbero ai nostri fuoriusciti, alle loro rivelazioni e ai loro libri un’accoglienza ben diversa da quella di cui possono beneficiare i transfughi della Casa bianca.
E questa è anche la ragione per cui Bolton può dire oggi di ritenere in fondo ancora rimediabili i guasti prodotti da Trump, a condizione che venga sconfitto alle prossime elezioni e non disponga di un secondo mandato. Perché lì c’è ancora un’alternativa. A noi italiani, almeno fino a quando il sistema politico sarà costituito da un governo populista e da un’opposizione ancora più populista, resta solo l’imbarazzo della scelta tra diversi modi di peggiorare la situazione.