Lezioni di infodemiaCosì il coronavirus ha mandato in tilt la comunicazione di Milano e della Lombardia

La difficoltà nel leggere l’emergenza ha provocato la creazione di messaggi contraddittori. Un fenomeno nuovo e pieno di insidie che Lelio Alfonso e Gianluca Comin analizzano in “#ZONAROSSA. Il Covid-19 tra infodemia e comunicazione”, (Guerini)

Il caso di Milano è simbolico e di particolare interesse per spiegare come la comunicazione che interseca un’emergenza può generare caos e letture affrettate se non si mettono in campo tutti gli strumenti utili a gestire una situazione imprevista.

Non ci sono colpevoli, vincitori o sconfitti: la metropoli lombarda, ferita come molte altre zone della Lombardia (a partire dalle martoriate province di Bergamo e Brescia), è per definizione al centro dell’attenzione e dunque molto di quanto abbiamo registrato e che qui analizziamo viene amplificato.

Più una realtà è celebrata per la sua organizzazione ed efficienza, maggiore sarà lo sconcerto se qualcosa (in questo caso molto) non funziona sul piano della gestione della comunicazione.

L’epidemia ai tempi dei social replica l’impietosa «memoria lunga» del mondo digitale. Se hai commesso un errore, ti sei lasciato andare a una frase fuori luogo o, peggio, che si dimostrerà fatalmente sbagliata, la ghigliottina dello screenshot e del pubblico ludibrio è affilata e in agguato. E così accade, appunto, anche per il Covid-19.

Le buone intenzioni, purtroppo accompagnate da dichiarazioni, video e hashtag, tornano, come un boomerang, puntualmente addosso all’autore.

Tra gli hashtag scolpiti nelle cronologie dei social network un posto di rilievo se lo aggiudica #Milanononsiferma, un amaro memento della lettura superficiale di dati parziali e contraddittori.

Abbracciato e riadattato da molte città – per non dire dall’intero Paese – il suo invito a non lasciarsi spaventare dal virus contribuisce alla diffusione del contagio e a rendere la meneghina città record di contagi.

Nei primi quattordici giorni di epidemia nessuna città rappresenta meglio di Milano le contraddizioni d’Italia: il governatore Attilio Fontana indossa, alla rovescia, la mascherina, il giorno successivo il sindaco Beppe Sala la t-shirt con l’hashtag improvvido.

È il 23 febbraio quando il virus giunge in città, e non in una qualsiasi. La capitale economica, capace di produrre, fatturare e affascinare, si deve piegare all’evidenza. Milano rende tangibili le conseguenze del bombardamento di informazioni, allarmanti e rassicuranti allo stesso tempo.

I cambiamenti comportamentali che si suggeriscono sono repentini, contraddittori e variabili, esattamente come lo sono i dati di cui si dispone. L’ospite inatteso fa subito sentire la sua presenza.

Insieme al virus, arrivano, a malincuore, i primi rinvii, le chiusure e i blocchi. Mido, il salone più importante al mondo dell’industria dell’occhialeria, in programma alla fine di febbraio, viene rinviato tra fine maggio e la prima metà di giugno.

È solo il primo di quella che diventerà una lunga catena di rinvii e cancellazioni, uno stillicidio di «riorganizzeremo più avanti» che è più una speranza che una certezza, in queste ore drammatiche.

Il sindaco Sala dichiara: «A livello prudenziale penso che l’attività scolastica vada sospesa a Milano. Proporrò al presidente della Regione di allargare l’intervento a livello di città metropolitana. È un intervento prudenziale». Parole che oggi sembrano quasi suonare beffarde, ma che una volta di più mostrano e dimostrano come – di fronte a un’emergenza – anche una città efficiente e reattiva fatichi a prendere le misure giuste. E le parole giuste.

Ma Milano non si arrende e sebbene la città assuma l’aspetto che di solito riserva nei mesi estivi – con parcheggi in strada e posti a sedere sui tram – the show must go on.

Con la mascherina, ma si continua a produrre. Le sfilate della Fashion Week avvengono a porte chiuse e il sindaco annuncia lo slittamento del Salone del Mobile (poi annullato definitivamente), una delle manifestazioni internazionali più importanti in Italia, rammaricato ma fiducioso: «Bisogna andare avanti, il virus della sfiducia non si deve diffondere: Milano deve lavorare».

Così, dopo appena quattro giorni dall’ordinanza regionale, sono riaperti i locali la sera, anche se solo con il servizio al tavolo.

I contagi crescono al pari della schizofrenia di molte scelte: il governatore Attilio Fontana compare in diretta Facebook con la mascherina, e Beppe Sala si appella al ministro alla Cultura Dario Franceschini chiedendo di poter consentire almeno l’accesso ai musei.

Riapre il Duomo, e la voglia di riscossa trova efficace espressione in #Milanononsiferma, l’hashtag ufficiale della campagna lanciata a supporto di oltre cento brand della ristorazione italiana.

Sono tanti i personaggi più o meno noti che lo rilanciano sui propri profili con foto della città che non si arrende e che prova a ripartire. Il sostegno arriva anche dal mondo politico: Nicola Zingaretti partecipa a un aperitivo simbolico con i giovani del partito sui Navigli e Matteo Salvini nondimeno dichiara: «Riapriamo tutto quello che c’è da riaprire, adesso».

Il peggio sembra passato, e nel primo weekend dall’esplosione del coronavirus la città pulsa. Se le palestre sono chiuse, i parchi si riempiono e in piazza Duomo si tenta di celebrare il Carnevale ambrosiano, sebbene sottotono.

L’apertura del Duomo e dei musei è prevista per l’indomani, come apripista verso la normalità anche se in Lombardia, come in Veneto ed Emilia-Romagna, le scuole rimangono chiuse.

L’ottimismo non basta a fermare il contagio e il 2 marzo, dopo che il tampone dell’assessore allo Sviluppo Economico della Regione Lombardia risulta positivo, l’intera giunta lombarda si sottopone al test.

Il Duomo riapre ma il virus si diffonde nei tribunali e al Teatro alla Scala. Il sindaco incalza: «Intanto dico che lo stigma su Milano è assolutamente eccessivo. A Milano dobbiamo fare due cose: tenere botta e pensare già al rilancio della città. Sto pensando a come rilanciare la città, a un piano di comunicazione internazionale, a chi chiamare intorno al tavolo».

Intanto, però, i negozi in via Sarpi, la Chinatown più grande d’Italia, primi ad aver subìto le discriminazioni della paura, abbassano la saracinesca e spaventati suggeriscono di seguire il modello delle restrizioni cinesi: «C’è un’esplosione di casi vicino a Milano, lo abbiamo visto in Cina cosa succede, centinaia al giorno. Da noi vanno meglio grazie alle misure rigide di contenimento dal contagio. Qua dovreste chiudere le attività senza mezze misure».

Solo il 9 marzo, di fronte a 506 casi registrati in città, giunge l’appello di Sala sui social: «Rimanete in casa il più possibile. Dobbiamo cambiare le nostre abitudini di vita, dobbiamo evitare contatti se non strettamente necessari. Solo se saremo uniti e non minimizzeremo la situazione potremo superare questo momento difficile».

Il 24 marzo, a un mese dal lancio di #Milanononsiferma, in un’intervista a Repubblica ammette: «In quel momento, lo spirito di Milano mi sembrava quello. Anche la scienza non dava un’interpretazione univoca della gravità della situazione. Se ho sbagliato allora, oggi son qua, tutti i santi giorni, per fare la mia parte».

Il 4 maggio Milano celebra l’ingresso nella Fase 2 con un video in cui la voce del rapper Ghali invita ad affrontare con prudenza e consapevolezza l’uscita dal lockdown, a rispettare le regole nella graduale riapertura della città. Il claim lanciato, «Un nuovo inizio. Un passo alla volta», guiderà l’intera campagna di comunicazione della città nei mesi a seguire di ripresa.

Un appello che si scontra però con le immagini dei Navigli affollati all’ora dell’apericena, fotografie che fanno infuriare il sindaco e minacciare nuove chiusure. Un clima da stop and go che ci accompagna per tutto il mese di maggio.

 

da “#ZONAROSSA. Il Covid-19 tra infodemia e comunicazione”, di Lelio Alfonso e Gianluca Comin, Guerini e Associati, 2020

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