Per non cancellare il tour, lo si riduce. Questa è la scelta che ha fatto il cantautore e musicista Dente (vero nome: Giuseppe Peveri): nel rispetto delle limitazioni imposte dalla pandemia, cambiando la natura stessa del concerto, ha già preparato alcune date. Per ora il 26 giugno a Bologna, poi a Ravenna il 10 luglio, più avanti si vedrà.
«Credo che, se c’è la possibilità di fare qualcosa, allora si debba farla. Io nel mio piccolo provo a ripartire», con una formula diversa, «in un clima differente e con una situazione cambiata».
Non sarà lo spettacolo che avevano concepito («era già pronto: luci, sfondi»), ma una sua versione ridotta, composta. «Si punta sul duo: un pianoforte e la chitarra, atmosfere intimiste e raccolte, canzoni acustiche e pubblico seduto».
Il numero di persone rimarrà uguale, ma chi verrà dovrà comunicare prima la presenza – con eventuali accompagnatori – per disporre i posti in modo appropriato.
Sarà questa la musica del post-pandemia? «Noi ci stiamo comportando come se fosse passata. In realtà c’è ancora, non siamo in una fase successiva. Questa è la musica “durante” la pandemia».
Anche se, certo, le fasi sono diverse. «Per fortuna abbiamo smesso di fare concerti ed esecuzioni su internet, in streaming, anche se al momento erano sembrate la cosa giusta da fare». Adesso «si può uscire, si può organizzare qualcosa».
Rimane il pensiero, «angosciante», che la crisi sia ancora qui, presente. Ma «spero che si possa tornare presto alla normalità. E allora vedremo cosa sarà cambiato».
Le aspettative, però, sono basse. «Ho perso la fiducia», confessa. «In queste settimane ho davvero sperato che ci fosse un ripensamento collettivo, che si capisse che questo mondo non è nostro, che non ci sono i confini, che le dogane non esistono, che di fronte al pericolo – come è il virus – siamo tutti uguali». E invece.
«Sono cose semplici da capire, ma dopo aver visto quello che è successo negli Stati Uniti non credo più che ci possa essere questa presa di coscienza», e scherza. «Quasi ce lo meritiamo di soccombere».
Nello specifico del caso americano, il problema delle proteste «è la violenza: quando si arriva a quel punto non sono più giustificate». Certo, «comprendo la rabbia. Ma si tratta di un fenomeno che noi, qui in Europa, possiamo capire fino a un certo punto. Negli Stati Uniti il razzismo era accettato, scritto nelle leggi, era previsto che gli afroamericani non avessero certi diritti». Questo non significa «che anche qui non ci sia il razzismo», chiarisce.
È sempre dalla stessa rabbia che derivano anche i gesti «un po’ sciocchi», dell’abbattimento delle statue, «anche se questo non vuol dire che voglio difendere Montanelli. Soltanto, che è difficile prendere una posizione nel 2020 su fatti del passato. Un esempio sono le baleniere: nel XIX secolo cacciare le balene era un’attività avventurosa, epica, quasi eroica. Oggi è proibito e quando succede si indignano tutti – e fanno bene». Questo però «non dovrebbe portare a bruciare “Moby Dick”».
Riflessioni sorte durante la quarantena? Non tanto. Anche lui, come molti altri, ha sofferto di una certa depressione artistica. «Sono stati due mesi di buio. Ho suonato tanto, sì. Ma come esercizio». Solo nelle ultime settimane del lockdown «ho ripreso a scrivere, comporre. Del resto è normale: è stato uno shock».
Tra file lunghissime ai supermercati, costrizioni faticose, «mi ricordo un episodio particolare. Ero uscito, da solo – quando c’era la chiusura – lungo la mia strada, qui a Milano. Saranno state le tre di notte. Mi muovevo, ed ero impressionato: dal silenzio, prima di tutto. Sentivo solo il rumore dei miei passi (e a Milano non succede). E poi dal senso di colpa: mi sembrava di essere un ricercato, un ladro. E anche se non facevo niente di male, visto che ero da solo, avevo la sensazione di non dover essere lì. Un sentimento strano, che non avrei mai creduto possibile».
Quello che è cambiato, però, è che il mondo della musica è sceso in piazza a protestare. E anche Dente. L’obiettivo è chiedere più tutele per chi lavora nel settore, «più per chi ci mette la faccia, come me e quelli molto più famosi di me, soprattutto per tutti quei lavoratori che non si vedono, ma sono fondamentali: tecnici, fonici, anche quelli che montano i palchi ai concerti».
Sono tutte persone «che nel momento della crisi, si sono trovati senza nessuna premura nei loro confronti. E sono persone che hanno famiglia, che affrontano questa attività con serietà – perché c’è ancora chi crede che sia un gioco, soprattutto se si tratta di musica pop». Per questo «era giusto farsi sentire e fare un po’ di rumore». Oltre alla musica.
Quella, riprenderà a breve. Come detto, con appuntamenti più «intimi» e ristretti. Perché forse la colonna sonora della pandemia, più che un genere o l’altro, sarà il volume, tenuto basso.