266,9 milioni di dollari incassati nel mondo; primo film sudcoreano a vincere la Palma d’Oro al Festival di Cannes 2019; primo film sudcoreano a ricevere una candidatura e aggiudicarsi la relativa statuetta ai Golden Globe 2020 (miglior film in lingua straniera); trionfatore della 92ª edizione dei Premi Oscar, dove ha sbaragliato nella categoria miglior film (prima opera in assoluto non in lingua inglese a riuscirci), migliore regia, migliore sceneggiatura originale e miglior film internazionale. Ebbene sì, il successo di Parasite di Bong Joon-ho verrà ricordato come una delle cose più belle del 2020 – non che ci volesse così tanto, col senno di poi –, soprattutto per noi, i fan accaniti che sin dall’inizio gli hanno assicurato un tifo da stadio e che uscivano estasiati dal cinema, ché era da un sacco di tempo che un film non ci lasciava così a bocca aperta.
Volendo fare un passo indietro, Parasite e la storia che narra sono entrambi figli dell’hallyu, un movimento in un certo senso ‘new wave’, che ha segnato la rinascita economica e culturale della Corea del Sud a cavallo dei due millenni e ha irradiato verso il resto del mondo i suoi usi, costumi e consumi. Il Paese in passato aveva sperimentato la dominazione giapponese, conclusasi con la Seconda Guerra Mondiale; una guerra civile eterodiretta che continua ancora oggi; un periodo di notevole crescita economica tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta; un regime autoritario sotto Park Chung-hee; infine un progressivo ritorno della democrazia negli anni ’80, che culminò nell’hallyu. Dentro l’hallyu c’è l’ossessione per il k-pop, i k-drama, la k-beauty e la k-cuisine, ma – come scrive Gabriele Sacchi su Il Tascabile – pure l’ascesa della Samsung e di ‘Gangnam Style’ di Psy arrivano da lì, dalla «medesima euforia di un popolo oppresso per secoli e desideroso di esportare la propria originale way of life». Il benessere improvviso che pare parlare a chiunque, le bolle speculative che di tanto in tanto scoppiano portando con sé drammatiche ricadute, il consumismo incontrollato e compulsivo, il turbocapitalismo che esaspera i desideri e indebita un’intera generazione: diversi sono i fattori che hanno creato un divario sociale insanabile, «tipico lascito dello sforzo economico di una potenza in ascesa» (sempre Sacchi), che vede da un lato i poverissimi e dall’altro i ricchissimi. E che si è innestato su un sistema profondamente gerarchico e influenzato dai valori del confucianesimo, come il rispetto per gli anziani e la deferenza che i giovani o gli inferiori di rango devono mostrare verso i più vecchi o i superiori di rango.
Questa tensione tra due classi agli antipodi, mosse da forze uguali e contrarie – i ricchissimi desiderosi di mantenere la propria posizione e di non mischiarsi con i parassiti; i poverissimi desiderosi di compiere la scalata utilizzando qualsiasi mezzo a loro disposizione – è il cuore di Parasite, il motore delle vicende rispettivamente della famiglia Park e Kim. La seconda – che vive d’espedienti in un lurido seminterrato e si barcamena alla bell’e meglio senza però mai cadere nel trappolone del vittimismo – s’infiltra nell’esistenza della prima, nell’enorme casa elegante e minimalista, nella silenziosa macchina di rappresentanza, nella tipica ingenuità di chi è pieno di soldi e non è costretto a stare sul chi va là. Bong scandaglia l’abisso tra i Park e i Kim attraverso gli ambienti, l’atteggiamento, e, si diceva, il cibo. Margy Rochlin sul Los Angeles Times descrive puntualmente una scena emblematica: «C’è un momento del film in cui la ricca casalinga (interpretata da Cho Yeo Jeong) interrompe un viaggio in macchina verso casa con il marito e i due figli per telefonare alla sua governante (l’attrice Jang Hye Jin) e dirle di andare nella loro cucina high-tech e preparare una pentola di ram-don. ‘Che diavolo è il ram-don?’, domanda a voce alta la governante. E così, la preparazione di un piatto misterioso diventa al centro di una scena ad alta tensione». Sin dall’uscita del film, YouTube s’è riempito di tutorial per fare il ram-dom, peccato solo che il ram-dom (una crasi tra ramen e udon, due differenti tipologie di spaghetti) non esista. La parola è stata infatti inventata durante la traduzione inglese di Parasite: nella versione originale, la signora Park chiede alla signora Kim il jjapaguri, una parola così difficile da adattare che il traduttore Darcy Paquet ha preferito ricorrere a un neologismo. Il jjapaguri deriva dall’unione di due popolari brand sudcoreani di noodles istantanei – Chapaghetti e Neoguri –, un piatto veloce molto amato dai ragazzini che noi bolleremmo senza esitazioni come cibo spazzatura. La ricca casalinga vorrebbe compiacere i gusti del figlio più piccolo, ma al tempo stesso è consapevole che, nel suo mondo, il jjapaguri è un cibo da poveracci: ed è proprio nel tentativo di ‘elevarlo’ che ordina alla domestica di aggiungere dei cubetti di controfiletto. «In realtà è un piatto che piace ai bambini indipendentemente dal ceto sociale», spiega Bong, «però l’abbiente signora Park non sopporta l’idea che il figlio mangi noodles a buon mercato: ecco spiegato il motivo della guarnizione extra».
Bong s’è divertito a disseminare Parasite di dettagli apparentemente insignificanti che passano quasi inosservati agli occhi di spettatori internazionali, ma non sfuggono a quelli del pubblico coreano. Oltre al jjapaguri, ha raccontato il regista in un’intervista all’Atlantic, «a un certo punto del film uno dei personaggi fa riferimento a una pasticceria taiwanese, e se sei coreano o taiwanese capisci subito di che si tratta. Molte persone che poi hanno perso il lavoro avevano investito parecchio denaro nell’apertura di queste pasticcerie in franchising: per un po’ è stata una tendenza davvero fortissima, peccato che le aziende non abbiano retto e siano fallite velocemente. Parecchia gente ha sofferto a causa di tali fallimenti: è stato un grande incidente economico per la società sudcoreana, che il pubblico occidentale non ha colto». La Corea del Sud è piena di negozi in franchising, ce ne sono talmente tanti che quattro proprietari di piccole attività su dieci chiudono in meno di un anno. Il meccanismo è semplice: ci s’accorge che qualcosa – macchinette acchiappa-pupazzi; patbingsu, il dessert di ghiaccio tritato con vari topping; succhi di frutta; birra; il gelato con l’honeycomb – va di moda, i negozi spuntano come funghi e a causa dell’eccessiva concorrenza o della stagionalità del prodotto finiscono per risultare obsoleti in un battito di ciglia. Le pasticcerie taiwanesi non hanno fatto eccezione: tra il 2016 e il 2017 tutti ne erano ossessionati e i punti vendita erano letteralmente ovunque, finché l’intera attività (che secondo alcuni ricalcava uno schema Ponzi) ha raggiunto il culmine ed è stata condannata a morte dai media. La king castella cake, la presunta delizia attorno alla quale ruotava l’operazione, venne accusata in un famoso show televisivo d’essere malsana, di contenere una dose eccessiva di olio di dubbia provenienza e di venire sfornata in maniera poco igienica. Morale, nel giro di un anno il business collassò, e con esso una middle class composta da sudcoreani di mezza età che avevano investito i risparmi di una vita in un’attività che pareva potenzialmente remunerativa: coperti di debiti e impossibilitati a trovare un nuovo lavoro, si trasformarono per l’appunto nei parassiti di una società che prima li accoglieva e ora invece li sputava.
Ultimo, ma non meno importante, la scelta delle bevande alcoliche da parte dei Kim non è che un ulteriore tassello all’interno di una narrazione dove il cibo diventa un potente indicatore sociale. All’inizio di Parasite i componenti della famiglia bevono FiLite, una birra nazionale assai economica definita «tremenda» da diversi blogger sudcoreani. Con il progressivo miglioramento della loro situazione finanziaria le cose cambiano, e a un certo punto li si vede bere la birra giapponese Sapporo, che è d’importazione e decisamente più costosa. La scalata continua una volta preso il possesso dell’enorme, elegante casa minimalista dei Park, dove si concedono i loro costosissimi alcolici di fascia alta: è l’inizio della fine, il momento a partire dal quale i loro sogni di gloria s’infrangeranno e il loro personale castello cadrà a pezzi. Si potrebbe dire che hanno deciso di volare troppo vicino al sole e che sono stati puniti per la loro truffa, eppure Bong non è qui per fare la morale a nessuno: chiunque perderà – ricchi, poveri, onesti, impostori, vittime e carnefici – perché chiunque ha dentro di sé l’una e l’altra faccia, chiunque nasconde entrambe le contraddizioni e non esistono vincitori o vinti tout court. Li chiama i suoi «amabili perdenti», e nessuno prima di lui era riuscito a raccontarli così, (anche) a colpi di noodles e controfiletto, più affilati della lama di un coltello da sushi.