Nel mezzo di mesi strani di quiete e sirene, di solitudine di massa protratta, di file al supermercato silenziose e distanziate socialmente, di occhi agitati sopra le austere mascherine, la discesa nella malinconia, ecco un’insurrezione!
Non ho bisogno di uscire e andare a vedere. È l’insurrezione che viene verso di me. Una folla gigantesca che manifesta sotto la mia finestra gridando in coro: “No Justice! No Peace!” (Niente giustizia! Niente pace!).
Il giorno successivo do un’occhiata. Voglio partecipare. Una folla molto più grande si è radunata al Barclays Center, gioventù di Brooklyn in molte delle sue varietà, amici delle superiori, hipster coscienziosi, una delegazione di personaggi patetici della Revolutionary Internationalist Youth, compagni di stanza che brandiscono i loro cartelli, dove è scritto a mano in maniera commovente “White Silence is White Violence” (Il silenzio dei bianchi è la violenza dei bianchi).
La folla immensa avanza lungo Flatbush Avenue. Di nuovo, non c’è bisogno che io vada. Una fazione viene a manifestare di nuovo sotto le mie finestre.
Lo spettacolo notturno, visto dal mio tetto, è decisamente allarmante. Lontano c’è il rimbombo delle folle che gridano, parole che possono essere state “George! Floyd!”, anche se non ne sono sicuro.
In alto, gli elicotteri della polizia bombardano di rumori la città. Sulla via i motociclisti rispondono agli elicotteri sgasando i motori.
Le sirene, di nuovo: sirene di combattimento, stavolta, e non di emergenza medica. Questo è l’impero della rabbia la quale, come le camionette della polizia che si vedono nei video e che vanno follemente a colpire la gente, si fa avanti senza pietà sul macabro silenzio dell’epidemia.
(Articolo pubblicato in inglese su Tablet)