La globalizzazione? Chiedo un attimo di pazienza, please. Per dire anzitutto che il pensiero liberale, che le ha messo il vento nelle vele, pensa in genere che l’uomo sia buono per natura. Potete cambiare l’aggettivo come più vi aggrada, aggiornarlo secondo nuove ricerche e prospettive, ma al fondo, se siete liberali, condividete un certo ottimismo antropologico: se lo lasciate fare, l’uomo non si comporta malaccio.
Posti dunque dinanzi alla fatidica domanda, se l’uomo sia o no un essere «estremamente problematico, anzi pericoloso e dinamico», essi rispondono che no, non lo è affatto. Se, al contrario, lo è, come invece pensava Carl Schmitt (da cui prendo la citazione, e il ragionamento), se gli viene naturale non l’affratellamento bensì la contrapposizione, allora l’uomo forgerà i suoi concetti politici lungo la ferrigna linea che divide l’amico dal nemico. Né saprà indicare un modo, diverso da questo, per pensare e realizzare l’unità politica. Che, in età moderna, si concentra e rapprende intorno alle nozioni di territorio, Stato, sovranità.
Mi fermo, non ho alcuna intenzione di fare tutto il periplo della teoria schmittiana del politico. Vorrei solo segnalare quel che, secondo lui, ti combina il liberale, in base alla sua generosa, troppo generosa antropologia. Anzitutto, ti mette lo Stato al servizio della società, e si capisce: se possiamo riconoscere all’uomo una qualche bontà, dello Stato, se mai ce ne sarà bisogno, sarà solo in ultima istanza; di regola, infatti, l’uomo in società pensa ai suoi affetti e ai suoi affari, e la cosa gli basta.
Sicché quel che ti fa veramente il liberale, è di vincolare il politico – il momento politico della decisione – all’«etico» e all’«economico»: il posto della lotta politica vera e propria lo prende allora la concorrenza, e invece di scagliare parole come pietre ci si mette comodamente a discutere. «Concorrenza eterna e discussione eterna», scriveva, tra l’inorridito e l’annoiato, il controverso giurista tedesco: una «coalizione straordinariamente complessa di economia, libertà, tecnica, etica e parlamentarismo» che ha l’’ambizione di tenere insieme in una «concezione ideologico-umanitaria» e in una «unità tecnico-economica» l’intera umanità. Ed eccola, la globalizzazione.
Ma è una gigantesca ipocrisia, una cortina di fumo, uno specchietto per le allodole, per i teorici à la Schmitt (che non mancano, a destra e a sinistra). Prima o poi il nemico arriva, nuovi raggruppamenti esistenziali si formano, e tutto questo ciarpame ideologico, fintamente umanitario, fintamente pacifista, fintamente amichevole e conciliante, viene spazzato via dalla «inesorabile consequenzialità del politico»: sono le ultime, implacabili parole del saggio (Poi Schmitt incontrò Hitler, e non sono sicuro che sia tutta un’altra storia).
Ebbene, finalmente il nemico c’è: è il Covid-19. È il virus che attenta alle nostre vite. Certo, avremmo preferito scegliercelo tra gli esseri umani, in omaggio alla dottrina. D’altra parte, qualche serio tentativo lo si stava già facendo: con i terroristi, ad esempio, o con i migranti (meglio ancora se migranti terroristi).
Ma come ti funziona il coronavirus non ti funziona nessuno. Di cosa avevi bisogno? Di dichiarare lo stato d’eccezione? Il virus te lo serve su un piatto d’argento, e se i dati non confortano l’allarme pandemia che problema c’è? Te la inventi.
Questa è stata la posizione, invero un po’ avventata, di Giorgio Agamben: «Frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza per una supposta epidemia dovuta al virus corona», scriveva a fine febbraio. Ma anche senza giungere a simili eccessi, contano gli effetti politici nella gestione dell’emergenza. E quelli vanno tutti nella medesima direzione: lockdown, limitazioni della libertà fondamentali, divieto di assembramenti, zone rosse.
Se il politico nel senso schmittiano è l’opposto della globalizzazione – è l’ambizione di tirare linee, delimitare spazi, mettere in forma: rinchiudere l’illimitato nel limitato, come dicono i metafisici – allora questa fase (la 1, la 2 o la 3, non ricordo a che punto siamo) ne rappresenta il grande, e brusco, ritorno.
E anche in quest’ultima fase, o in quella normalità senza distanziamenti e senza mascherine che prima o poi, col vaccino e/o con cure efficaci, arriverà, come andranno le cose? Davvero riapriremo spensieratamente i confini, torneremo a celebrare il commercio internazionale e la teoria ricardiana dei vantaggi comparati?
Quante probabilità ci sono che venga prima o poi ripreso l’hashtag #abbracciauncinese, quello che il sindaco di Firenze Nardella aveva coraggiosamente lanciato, ai primi di febbraio, in solidarietà con la comunità cinese divenuta improvvisamente una manica di appestati?
In realtà, buone probabilità, io credo. E non solo perché Trump è più di un mesetto che, nonostante la sua compulsiva attività su twitter e gli screzi sull’Oms, non scrive che trattasi di un «chinese virus» (i virus nazionalizzati e territorializzati calzano a pennello con la teoria schmittiana, un po’ meno con l’epidemiologia). Ma perché non è lo spregevole relativismo multiculturalista dei progressisti ad avere annacquato la vera politica in un insulso sport per signorine.
Mettetela pure così, se vi va di polemizzare, ma in ballo ci sono cose ben più sostanziose, io credo: è il tessuto produttivo dell’economia internazionale, è la Rete, il 5G, i movimenti di capitale, gli scambi in essere, un’infrastruttura che non è facile sbaraccare come i voli low cost.
Dico però la cosa sotto il profilo teorico, lasciando ad altri il compito di descrivere lo stato dei rapporti internazionali, i flussi finanziari, il capitalismo digitale e le catene di valore. E la dico così: non c’è solo la sovranità di Schmitt, quella che decide senza lacrimucce sullo stato d’eccezione. C’è anche il triviale, il prosaico, il quotidiano interesse: il calcolo o l’utilità (e, quando le cose girano, la Zivilisation che da queste cose fiorisce).
Tutto quello, insomma, che in questo momento preoccupa gli italiani molto più che non la sicurezza o la salute. E uno Stato che non fosse in grado di garantire la tenuta reale dell’economia non avrebbe alcuna potenza politica, per quante iniezioni di decisionismo praticasse nelle sue vene, anche a colpi di Dpcm.
Tra i giuristi, qualcuno storce il naso di fronte al fatto che, per sentire voci preoccupate degli strappi costituzionali imposti dall’emergenza bisogna recarsi in viale dell’Astronomia, piuttosto che al Palazzo della Consulta. Piacerebbe anche a me, in realtà, una maggiore autonomia del giuridico: tanto dalla politica quanto dall’economia.
Ma non è in fondo una conferma, questa, di quanto lamentava Schmitt, che cioè l’«economico», tanto quanto il «tecnico», lega effettivamente il politico – e però slega gli uomini, dandogli libertà di spaziare, viaggiare e commerciare?
L’«etico» gli va dietro, anziché stargli davanti, ma anche così: io non so se debba dispiacermi di una politica legata a questo modo, di una politica non assoluta, di una politica deteologizzata. E se questi legamenti sussistono, vuol proprio dire che il pensiero e la prassi liberale non sono solo chiacchiere, ideologismi, fumisterie.
Sono fenomeni reali, che non scompaiono solo perché il virus diventa il nemico e nei tg si dice che siamo in guerra. Piuttosto, i liberali puri devono sapere che proprio come il principio di sovranità è imbrigliato dal principio economico della prestazione, così questo è a sua volta condizionato da quello. Cioè, da politiche regolatorie, da interventi pubblici, da interessi strategici. La cui mano si fa più chiusa e pesante quando il momento fondante della politica – la sicurezza – torna a farsi vicino, e più leggera non appena se ne allontana.
Ma modernità ha sempre significato ricerca delle vie e dei modi per sentire quella mano meno stretta e più aperta. E non v’è motivo, io credo, per rinunciare a questa ricerca e ai suoi frutti.