Nebbia sulla Manica, Inghilterra isolataLe conseguenze della pandemia e della (vera) Brexit sull’università britannica

I numeri ci dicono che il Regno Unito è la nazione che ha più beneficiato della mobilità garantita e incentivata dall’integrazione europea. Una situazione vantaggiosa per tutti messa in discussione da due disastri, uno naturale e uno auto inflitto

Michel de Montaigne, nel saggio dedicato all’educazione dei giovani scriveva: ‘Il faut voyager pour frotter et limer sa cervelle contre celle d’aultruy’ (bisogna viaggiare per strofinare e limare il proprio cervello con quello altrui, ndr). Nel ‘500, quella grande figura di intellettuale europeo, per molti versi comparabile a Erasmo da Rotterdam, elogiava il viaggio e l’incontro come strumento fondamentale per raffinare l’intelletto attraverso la dialettica e l’esperienza della diversità. Cinque secoli dopo, il valore economico, umano e intellettuale del viaggio è universalmente riconosciuto. Parte della costruzione del progetto europeo è stata dedicata proprio a facilitare la diffusione di quel valore nel modo più equo e libero possibile. La mobilità dei lavoratori, dei flussi turistici, degli studenti e dei docenti ha moltiplicato le opportunità di raffinamento dell’intelletto raggiungendo una scala continentale che Michel de Montaigne non avrebbe neanche potuto sognare.

I numeri ci dicono che la Gran Bretagna è forse la nazione europea che ha più beneficiato della mobilità garantita e incentivata dall’integrazione europea. Nonostante questo, paradossalmente, è il primo Paese che ha deciso di ritirarsi dal progetto europeo e di erigere nuove barriere ai suoi confini. Il settore universitario, forse esemplare e paradigmatico ma non certamente l’unico ad essere stato coinvolto fortemente dalla filosofia della mobilità. Un esempio per tutti, in tempi di pandemia, è il caso del sistema sanitario. Il National Health Service, Nhs, impiega 1,200.000 dipendenti, tra questi, 65.000 (5,4%) provengono dall’Unione Europea.

Gli studenti stranieri
Il sistema universitario britannico, tra i grandi Paesi europei, è quello che accoglie il numero più alto in assoluto di studenti provenienti dall’estero. In questo articolo, dove non specificato altrimenti, utilizzeremo gli ultimi dati disponibili pubblicati da Universities Uk, relativi all’anno accademico 2017-2018.

Il totale degli studenti iscritti è di circa 2.380.000. Il giro d’affari dell’istruzione superiore spiega circa l’1,7% del PIL britannico ovvero 38,2 miliardi di sterline. Sul totale degli iscritti, circa il 6% proviene dall’Unione Europea (140.000), ci sono poi 340.000 overseas students provenienti dal resto del mondo.

Complessivamente gli iscritti provenienti dall’estero ammontano a circa 480.000, oltre il 20% del totale. Nel caso degli studenti cinesi, la componente extraeuropea più consistente, si tratta di una combinazione di due tipi di studenti, i più brillanti o i più benestanti. Nel caso degli studenti Erasmus, si tratta spesso dei migliori perché selezionati prima della partenza e aggiudicatari delle borse per le destinazioni di norma più ambite.

Ripensando alla frase di Montaigne, le classi con una presenza consistente di studenti Erasmus sono le più stimolanti sia per i docenti che per i discenti. I primi possono fare riferimento per esempio provenienti da nazioni e contesti istituzionali e culturali differenti, i secondi possono apprendere dai contributi dei loro colleghi europei e beneficiano di un meccanismo di competizione tra le diverse componenti della classe.

Negli ultimi anni il numero di studenti stranieri ospitati dalle università britanniche è aumentato costantemente, con rare eccezioni. Tra il 2013 e il 2018 il numero di studenti europei è cresciuto dell’11%, mentre il numero degli overseas è cresciuto del 3%. Di questi, circa l’80% era a tempo pieno e circa il 76% era undergraduate, con una leggera prevalenza di studentesse (57%) e di studenti sopra i 21 anni.

La composizione della provenienza degli studenti stranieri cambia leggermente tra corsi triennali e magistrali. Tra gli undergraduates, il 5.3% proveniva dall’Unione Europea e il 9.1% dal resto del mondo. Tra gli studenti magistrali, l’8.0% proveniva dall’Unione Europea e il 27.8% dal resto del mondo.

Il personale straniero
Ricevere così tanti studenti stranieri ha comportato reclutare il personale docente, ricercatore e di supporto su scala continentale. Le università impiegano circa 430.000 di dipendenti e tra questi il 20% si è trasferito in Gran Bretagna dall’estero. Tra i docenti e i ricercatori si contano 38.000 dipendenti, in molti casi si tratta di risorse di eccellenza in tutte le discipline.

Nell’anno accademico 2017-2018 oltre il 20% dei dipendenti erano di nazionalità non britannica. Di questi, il 12.1% proveniva dall’Unione Europea, l’8.4% dal resto del mondo. Il 54.4% era di sesso femminile, il 28.1% aveva meno di 35 anni. La proporzione del personale straniero sale tra i ricercatori e i docenti e scende tra gli amministrativi e il personale di supporto. Dal 2013, il numero degli europei è aumentato del 30% e i docenti di provenienza extra europea sono aumentati del 19%.

Tra i docenti con incarichi di ricerca e insegnamento, il 30% non era britannico con punte del 44,5% in ingegneria e tecnologia. Se prendiamo in considerazione i dipendenti con contratto esclusivamente di ricerca, la percentuale degli stranieri sale al 48%. D’altronde, nel 2018 le fonti di finanziamento della ricerca di origine straniera ammontavano al 17,7% (1,5 milioni di sterline).

Nei dipartimenti universitari britannici, fino a oggi, lavorare con colleghi provenienti da tutto il mondo è stato la norma, non l’eccezione come in Italia. Scrutando l’elenco dei docenti sulle bacheche digitali o curiosando tra i corridoi, la presenza di nomi più o meno esotici ha arricchito l’esperienza professionale del personale e la formazione degli studenti.

Le regole e i programmi comunitari hanno non solo reso possibile ma incentivato questa mobilità con il finanziamento della ricerca o con opportunità di breve periodo per i docenti come Erasmus Teaching Staff Mobility Grant. Tuttavia, il futuro non è roseo.

Il giro d’affari
Oltre alla contaminazione delle menti e all’arricchimento personale, non sono mancati i benefici economici. Il settore universitario britannico, ancor più che nel resto d’Europa, contribuisce all’economia nazionale e in questo caso anche alla bilancia dei pagamenti.

Nell’anno finanziario 2017−18, le università britanniche hanno ottenuto ricavi per 38,2 miliardi di sterline, di cui 21,1 provenienti dalle attività di didattica, 4,5 da ricerca e partnership industriali. Il totale delle spese ammontava a 37,2 miliardi di sterline garantendo così circa un miliardo di sterline di surplus.

La componente europea dei ricavi delle attività di ricerca (11,3%). Si consideri che il programma promosso e finanziato dall’Unione Europea “Horizon 2020” si chiude con la Gran Bretagna al primo posto tra i beneficiari. Nel caso della didattica, il calcolo non è semplice poiché fino al 2020 le tasse universitarie pagate dagli studenti europei sono state contabilizzate come quelle degli studenti domestici.

La pandemia e Brexit
Questa situazione, oggettivamente ideale e vantaggiosa per tutti, è messa in discussione da due disastri, uno naturale (la pandemia Covid-19) e uno man made e autoinflitto (Brexit).

La pandemia ha colpito tutti i paesi europei e gran parte del mondo in eguale misura. Tuttavia, il settore universitario britannico ne risentirà in forma molto più acuta per tre motivi. Il primo è che la componente di studenti stranieri è decisamente superiore al resto d’Europa e questo 20% di studenti (sia gli europei che i cinesi) potrebbe decidere di restare in patria invece di avventurarsi in un viaggio verso la Gran Bretagna a fine agosto, ancora nel pieno dell’evolversi degli eventi.

Una indagine di Quacquarelli Symonds di aprile 2020 ha stimato che tra gli studenti cinesi il 49% ha già deciso di restare in Cina. In Italia, invece, questo calo sarà quasi impercettibile e comunque irrilevante vista la struttura dei bilanci delle università italiane. Il secondo motivo è che gli studenti britannici sono soliti approfittare di un gap year, tra scuola e università o anche all’interno del ciclo universitario. Apparentemente molti studenti domestici (si stima il 20%) stanno decidendo di rinviare l’iscrizione al 2021.

Il terzo motivo è che il finanziamento delle università britanniche segue logiche private e commerciali, a differenza di gran parte del continente europeo. Questo significa che il calo degli studenti comporterà un calo drastico dei ricavi, sia quelli rappresentati dalle iscrizioni sia quelli provenienti dalle altre attività gestite direttamente o indirettamente (alloggi, servizi, catering…). Si stima che l’epidemia potrebbe causare danni per circa 800 milioni di sterline e che il numero di iscrizioni potrebbe calare da un minimo di 120.000 a un massimo di 500.000 unità.

Il secondo disastro, Brexit, avrà un impatto sia sugli studenti che sui docenti. Gli studenti europei molto probabilmente perderanno le opportunità offerte da Erasmus+ e dovranno preoccuparsi di formalità da tempo dimenticate come il visto e l’assicurazione sanitaria. Ma a differenza dei loro colleghi britannici, hanno 27 nazioni dove recarsi liberamente e possono trovare programmi universitari in lingua inglese ormai in tutto il continente.

I docenti britannici perderanno l’accesso ai finanziamenti europei, inclusi quelli alla mobilità. I colleghi europei non godranno più della libertà di movimento verso la Gran Bretagna e saranno soggetti alle stesse regole migratorie riservate al resto del pianeta. Il clima di ostilità per gli stranieri dal 2016 in poi non ha accennato a placarsi e rappresenta una barriera invisibile alla mobilità dei talenti. Brexit ha innescato un fenomeno consistente di rimpatrio in molte professioni, sia quelle manuali (l’idraulico romeno ha ormai condizioni vantaggiose in patria) sia quelle più intellettuali (la scienziata italiana o polacca ha colto l’occasione per rimettersi in gioco nel paese di origine).

Nel caso del sistema sanitario il fenomeno è marcato e dopo il referendum il crollo dell’afflusso di medici e infermieri europei ha messo a dura prova gli ospedali britannici. L’agricoltura è interamente dipendente dalla forza lavoro europea e l’effetto congiunto di Brexit e della Pandemia sta causando enormi perdite tanto che persino la famiglia reale si è scomodata per lanciare la campagna ‘Pick for Britain!’ rivolta ai sudditi.

È ancora presto per stimare i danni alla mobilità causati da Brexit e dalla pandemia. Quello che sappiamo è che la Gran Bretagna sarà la nazione più colpita per l’effetto combinato di questi due disastri e per la sua natura insulare che torna ad essere non solo una caratteristica geografica e politica ma anche culturale e istituzionale.

I populisti hanno sempre guardato con sospetto al valore della mobilità. Nel caso britannico, il referendum del 2016 è stato caratterizzato dalla paura dello straniero e degli effetti sul mercato del lavoro domestico di un consistente afflusso di lavoratori europei (peraltro subito contrattosi al termine della crisi finanziaria del 2008). I populisti e i conservatori britannici hanno poco apprezzato persino il programma Erasmus. Hanno infatti tagliato l’insegnamento delle lingue straniere e hanno ritenuto che la mobilità europea fosse un lusso riservato a pochi fortunati, alla cosiddetta metropolitan elite.

Che la mobilità studentesca sia un lusso di pochi privilegiati è discutibile. Semmai, sarebbe un motivo per destinare ulteriori risorse e non per attaccare il programma Erasmus e gli altri strumenti di integrazione e costruzione della cittadinanza europea. In realtà, è vero il contrario, Erasmus è servito soprattutto agli studenti di origini più modeste. I ricchi e i privilegiati, d’altronde, non avevano bisogno di una borsa europea o del processo di Bologna per andare a studiare all’estero.

Nel 1500, il viaggio, il grand tour, era un lusso riservato all’aristocratico Michel de Montaigne, oggi invece è una opportunità per tutti, anche grazie all’Unione Europea.

*Paper a cura di “Erasmo – Fondazione di Partecipazione” Lavoro curato dal prof. Andrea Bernardi (Oxford Brookes University)

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