Nel mondo, tutti gli Stati economicamente avanzati stanno già lavorando al dopo covid-19. In Europa viviamo la condizione (forse unica) di avere strategie e programmi su due livelli: quello continentale e quello dei singoli Stati.
Rispetto al primo, si tratta di iniziative e procedure promosse o sviluppate – ciascuno per le proprie competenze – da Commissione Europea, Consiglio Europeo, Eurogruppo, Bce, e Parlamento Europeo a cui sono ascrivibili diverse decisioni, alcune già deliberate, altre in fase di definizione. Tra queste principalmente si segnalano: la sospensione dei vincoli di bilancio definiti nel trattato di Maastricht; Sure (l’iniziativa di supporto alla cassa integrazione europea); il programma di acquisizioni di titoli di stato e quello di prestiti agli Stati; il Mes e da ultima la recente proposta franco/tedesca che sembra aprire la strada ad una qualche formula di condivisone del debito (proposta questa appena avanzata e ancora da sviluppare sia sotto profilo politico che tecnico).
Rispetto invece al livello dei singoli Paesi, sono già attivi sia piani nazionali per l’emergenza, sia iniziative per la fase di rilancio dell’economia e per il sistema produttivo dei singoli tessuti. Il combinato disposto (europeo e continentale) di queste misure genera investimenti e trasferimenti per miliardi di euro come mai si era visto nella storia del Vecchio Continente.
Il contesto è quindi di notevoli risorse movimentate (o da movimentare), di investimenti e programmazione da rilancio. Al netto dei diversi piani in cantiere, messo da parte l’aspetto economico/procedurale degli interventi, c’è forse un aspetto rilevante e trasversale a tutte le misure (che ha già caratterizzato i tre mesi di lockdown della popolazione mondiale) che senza dubbio avrà una influenza decisiva anche sulla ripresa: il livello di digitalizzazione della società europea ed in particolare il livello di efficienza e funzionalità tecnologica delle strutture burocratico/amministrative.
Elemento questo, con cui tutti i piani economici e tutti i protagonisti saranno comunque “costretti” a misurarsi. In questa pandemia ciascun europeo, ciascuna istituzione e ciascuna impresa, hanno subito una digitalizzazione forzata. Una spinta all’uso diffuso di tecnologie che non solo ha “obbligato” la nostra realtà ma ha anche dato la cifra di un paradigma di cui probabilmente servirà tener conto nel futuro. Oggi infatti ci si domanda se questo uso intenso di tecnologie innovative sarà contingente o consentirà un ammodernamento strutturale dei Paesi europei e se impatterà sulla macchina burocratica dei diversi Paesi. Partire da una riflessione sull’indice “Desi” (Digital Economy and Society Index), che annualmente la Commissione Europea realizza per analizzare lo stato di avanzamento della digitalizzazione in Europa e nei singoli Stati, questo oggi torna utile per definire consapevolezza della situazione attuale e per contribuire a definire un terreno su cui si misurerà lo sviluppo economico e sociale.
Partendo dall’ultimo report disponibile, insieme alle tradizionali voci analizzate (connettività a banda larga; competenze digitali; utilizzo di internet; digitalizzazione delle imprese; servizi pubblici digitale; settore ICT e ricorso a finanziamenti di “Horizon 2020” da parte degli Stati membri), per definire meglio l’indice del 2019, la metodologia utilizzata ha preso in considerazione anche nuovi elementi utili ad integrare e meglio definire il dettaglio: preparazione al 5G; competenze digitali superiori a quelle di base; competenze di base in materia di software; specialisti TIC donne; laureati nel settore TIC; individui che non hanno mai usato internet; social network professionali; frequentazione di corsi online; vendita online da parte di individui; big data; scambio di dati medici; ricette digitali.
Nel contesto generale, i principali dati analizzati testimoniano, attraverso il “Desi”, come proprio con investimenti mirati in politiche digitali si riesca a ottenere risultati importanti in singoli Paesi. Per stare a qualche esempio, la Spagna per la diffusione della banda larga, Cipro per la connettività della banda larga, l’Irlanda per la digitalizzazione delle imprese e Lettonia e Lituania per i servizi pubblici digitali.
Volendo dare uno sguardo più approfondito ai numeri dell’indice 2019, risulta che su scala europea la connettività sia insufficiente soprattutto a fronte della rapida crescita di richieste ed esigenze; crescita portata a ampliarsi ancor di più per evidenti motivi. A riprova di ciò si veda come rispetto al 2014, con un numero quattro volte superiore rispetto a 6 anni fa, il 20% delle famiglie utilizza la banda larga ultraveloce e come circa il 60% delle famiglie abbia accesso alla connettività ultraveloce di almeno 100 megabit per secondo (Mbps).
In Europa, Svezia e Portogallo registrano maggiore diffusione di banda larga mentre Finlandia e Italia sono tra i Paesi più avanzati nell’assegnazione di frequenze e spettro 5G. Per quel che riguarda le competenze, solo il 31% della forza lavoro possiede skill avanzate nell’uso di internet mentre in Europa più di un terzo della forza lavoro possiede solo competenze digitali di base.
Allo stesso tempo, è in crescita in tutti i settori dell’economia la domanda di competenze digitali avanzate: Finlandia, Svezia, Lussemburgo, Estonia guidano la classifica degli Stati che occupano il più alto numero di specialisti delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, settore che negli ultimi 5 anni ha visto aumentare di circa 2 milioni le unità di persone impegnate.
Inoltre l’83% degli europei naviga su internet almeno una volta alla settimana (erano il 75% nel 2014) e solo l’11% della popolazione dell’UE non ha mai usato internet (rispetto al 18% del 2014). Ad aumentare in misura maggiore sono stati i servizi di videochiamate e video su richiesta, disponibili su vari programmi informatici e applicazioni per smartphone.
Con riferimento al commercio elettronico, i dati dicono come progrediscano lentamente e nel complesso i Paesi UE che registrano i maggiori successi nel settore sono Irlanda, Paesi Bassi, Belgio e Danimarca, mentre Ungheria, Romania, Bulgaria e Polonia devono riuscire a recuperare il ritardo accumulato. Un numero crescente di imprese fa ricorso a servizi cloud (il 18% rispetto all’11% del 2014) o ai social media (il 21% contro il 15% del 2013) per dialogare e sviluppare relazioni con i clienti e altri partner.
Si registra però una stagnazione negli ultimi anni del numero di PMI che vendono beni e servizi online (17%). Nel settore dei servizi pubblici digitali, in cui esiste una regolamentazione dell’UE, si registra una tendenza alla convergenza tra gli Stati membri nel periodo 2014-2019. Il 64% degli internauti che trasmettono moduli alla pubblica amministrazione utilizza ora i canali online (erano il 57% nel 2014), dimostrando così la comodità del ricorso alle procedure telematiche rispetto a quelle burocratiche tradizionali.
In questo particolare settore (ma non è il solo con questo risultato), la normativa europea genera maggiore omogeneizzazione e ciò è un elemento di vantaggio sia per il contesto comunitario che per cittadini e imprese. La media europea dell’index in questione è di 52,5 con Polonia, Grecia, Romania e Bulgaria a chiudere la classifica che è aperta da Finlandia, Svezia e Paesi Bassi (tutti intorno ai 70 punti). Spagna (56,1) e Germania (54,4) ottengono un punteggio sopra la media europea, mentre la Francia (51,0) è al di sotto, ma con ampio vantaggio rispetto all’Italia che si piazza in 24° posizione su 28 (è considerata anche l’Inghilterra pre brexit) con il punteggio di 43,9.
Questa è la foto complessiva consegnata dall’indice “Desi” del 2019, che nell’anno in corso dovrà sicuramente fare i conti con lo sviluppo e l’utilizzo intensivo delle nuove tecnologie esploso nei primi mesi del 2020 a causa della pandemia, anche se probabilmente ci sarà da analizzare bene voce per voce e capire se si tratta di uno sviluppo omogeneo o per specifici settori e territori.
Il contesto italiano
Come detto, il posizionamento dell’Italia si colloca al 24° nell’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI) per il 2019. Tale posizionamento si declina in realizzazione o meno di voci concrete che qui accenniamo. La copertura a banda larga veloce e la diffusione del suo utilizzo sono in crescita (pur se quest’ultima rimane sotto la media), mentre sono ancora molto lenti i progressi nella connettività superveloce (100 Mbps e oltre) dove l’Italia appare ancora in ritardo (con una percentuale pari ad appena il 24% in confronto a una media UE del 60%) e si piazza in prossimità del fondo classifica (27° posto), pur se con un lieve tasso di crescita.
Tuttavia, tre persone su dieci non utilizzano ancora internet abitualmente e più della metà della popolazione non possiede competenze digitali di base. Solo il 44% degli individui tra i 16 e i 74 anni possiede tali competenze contro il 57% dell’UE. Tale carenza nelle abilità digitali si riflette anche in un minore utilizzo dei servizi online, dove si registrano ben pochi progressi.
Le attività online più diffuse sono lo streaming, il download di musica, guardare video e il gioco online. Seguono l’uso dei social network e la lettura delle notizie online (sebbene questa attività si trovi all’ultima posizione tra i 28 Stati dell’UE). La scarsa domanda influenza l’offerta e questo comporta una bassa attività di vendita online da parte delle PMI italiane rispetto a quelle europee.
Solo il 10% delle PMI vende online (ben al di sotto della media UE pari al 17%), solo il 6% effettua vendite transfrontaliere e solo l’8% circa dei loro ricavi proviene da vendite online. Le imprese italiane presentano tuttavia un punteggio migliore per quanto riguarda l’utilizzo di software per lo scambio di informazioni elettroniche e social media. Sul fronte dei servizi pubblici digitali, l’Italia si piazza al 18° posto tra gli Stati UE.
Negli anni ci sono stati evidenti miglioramenti nei servizi pubblici online, negli open data e la diffusione dei servizi medici digitali è ben consolidata. Tuttavia l’Italia presenta uno scarso livello di interazione online tra le autorità pubbliche e l’utenza: solo il 37% degli utenti di Internet italiani che hanno bisogno di inviare moduli lo fa online.
Ciò è dovuto, in parte, anche all’età avanzata sia della popolazione che dei dipendenti della PA italiana, che con un’età media di 52 anni si conferma ormai da anni come la più “vecchia” tra i paesi OCSE. E questo aspetto incide notevolmente sulle relative abilità informatiche possedute e sull’efficienza dei procedimenti amministrativi.
A fronte di un quadro non ottimistico del livello di informatizzazione dei dipendenti pubblici in Italia è tuttavia necessario guardare alla trasformazione digitale come condizione indispensabile per l’efficienza e lo sviluppo del sistema-Paese. Bisogna cogliere l’opportunità di questa crisi per riformare complessivamente la Pubblica Amministrazione italiana, una tra le principali criticità per qualsiasi progetto di investimento pubblico e privato.
Impatto della innovazione rispetto alla PA: tre direttrici principali da seguire
L’Italia, come l’Europa, se non vuole perdere terreno nei mercati in cui è tradizionalmente competitiva, deve dunque cogliere l’occasione della crisi per intervenire su quelle criticità che ne hanno rallentato la produttività nelle fasi di crescita economica mondiale.
Dare forza al sistema produttivo significa anche consentire una ripresa veloce e più efficiente e dinamica anche nella prospettiva di un’economia a bassa mobilità. Vale per noi, vale per la dimensione comunitaria. Guardando la questione dal punto di vista della PA, il miglioramento del “Desi” lato strutture pubbliche è quindi fondamentale.
Nel dettaglio di questo paper, ciò vale ancora di più con riferimento alle strutture dell’amministrazione che rappresentano la macchina operativa che quotidianamente attiva la realizzazione pratica delle decisioni assunte dai diversi organi di governo. L’innovazione (sia dal punto di vista tecnologico che dal punto di vista delle procedure) della PA è quindi un elemento da chiave di volta che determina due obiettivi: il miglioramentocomplessivo del nostro indice “Desi” a livello europeo; una più efficace e veloce realizzazione delle attività in capo agli uffici pubblici.
Con riferimento a questa impostazione, a seguire tre proposte operative individuate da “Erasmo”: a) Digitalizzazione e smart working. La crisi sanitaria ha evidenziato quanto sia utile un’amministrazione digitalizzata, che riesca ad interagire col pubblico tramite le piattaforme on line e lo scambio di documenti digitali.
Questa innovazione forzata non deve allentarsi con la ripresa ma deve anzi intensificarsi. L’utilizzo delle videoconferenze come prassi acquisita per riunioni e incontri al pari delle formule tradizionali. Come sperimentato in questi mesi, la modalità a distanza permette incontri più rapidi e certi, con pochi assenti e tempi gestiti in maniera efficiente.
Inoltre, in relazione ai trasporti, consente elevati risparmi di spesa ed ambientali, e contribuisce a ridurre il numero di passeggeri che quotidianamente utilizzano i mezzi di trasporto pubblico favorendo il distanziamento sociale.
Sarebbe utile, pertanto, una disciplina non emergenziale dello smart working che regoli meglio orari e organizzazione della prestazione. Ed un metodo diverso della PA nella gestione degli uffici meno orientato al vincolo maniacale dell’orario di lavoro, ma più attento ai risultati prodotti quotidianamente dai dipendenti.
La strutturazione ordinaria del lavoro agile nella PA necessità l’individuazione di uno specifico dirigente che si occupi periodicamente dell’assegnazione degli obiettivi da raggiungere e di monitoraggio quotidiano dei processi. b) Al primo punto si collega strettamente anche l’approccio tenuto dalla PA nella gestione delle risorse per gli investimenti; un approccio fino ad oggi ancorato più alla fedeltà alla norma che all’efficacia dei risultati.
Per intenderci, la principale preoccupazione di dirigenti e funzionari sia regionali che nazionali nell’attuazione degli interventi per lo sviluppo non sembra quasi mai essere la realizzazione delle infrastrutture, l’aumento degli occupati, o il miglioramento della qualità della vita.
La principale preoccupazione è sembrata spesso essere quella di uscire indenni nella gestione della spesa pubblica senza procedimenti per danno erariale. Quindi in sostanza, considerati i rischi, c’è un forte incentivo a “non fare”, poiché in questo caso il rischio è zero, piuttosto che accelerare nella spesa delle risorse, con un’incertezza elevata a causa della normativa in continua evoluzione.
Come riferito dal Presidente della Sezione di controllo per gli affari comunitari e internazionali della Corte dei Conti, Giovanni Coppola, in un’audizione alla Commissione Politiche dell’Ue del Senato, a fine ottobre 2019, in Italia su un totale programmato di 53,3 miliardi, si registravano impegni per soli 28,9 miliardi (il 54,3% del programmato) e pagamenti per appena il 14,3 miliardi (il 26,9%).
Va creato all’interno delle regole contrattuale di dirigenti e funzionari della PA dei meccanismi che controbilancino l’incentivo a “non fare”. E può essere ottenuto intervenendo su la parte contrattuale della retribuzione di dipendenti, funzionari e dirigenti, legata ai risultati. Va immaginato un meccanismo di pagamento dell’indennità di risultato integrando, ove ciò sia possibile, con riferimento a risultati oggettivi in termini di spesa, di innovazione tecnologica generata o di crescita dell’occupazione.
Con riferimento alla gestione di fondi europei, in particolare, su questo aspetto sarebbe utile intervenire prima dell’inizio del nuovo ciclo di programmazione UE (2021/2027), introducendo degli obiettivi da raggiungere per ottenere la retribuzione di risultato dei dirigenti e funzionari legati ad indicatori oggettivi (apporto in digitalizzazione e innovazione tecnologica nella gestione; target di spesa; contributo all’alfabetizzazione dei beneficiari; bandi pubblicati; tasso di occupazione generato; lotta alla dispersione scolastica) facilmente misurabili. c) Un’amministrazione più giovane e più competente. In Italia, soprattutto al Sud, il personale della PA, a tutti i livelli, locale, regionale e centrale, è mediamente anziano e poco qualificato. Colpa di concorsi bloccati negli anni ’80 e di stabilizzazioni di precari dagli anni ’90 ad oggi.
Contrariamente alla vulgata comune, i dipendenti pubblici italiani sono pochi. Nel raffronto con la dimensione europea, in rapporto al totale dei lavoratori, in Europa le percentuali sono molto alte soprattutto per i Paesi piccoli.
In Norvegia gli statali sono il 30,34% di tutti gli occupati; in Svezia il 28,83%; in Danimarca il 28,02%. Seguono la Finlandia, con una proporzione di lavoratori del pubblico del 24,29% e poi la Lituania, con il 22,16%. La Francia con il 21,91% è il primo dei Paesi più grandi e supera di poco la piccola Estonia. L’Italia con il 13,43%, è molto sotto la media Ocse, che è del 17,71%.
Se invece dell’insieme degli occupati si confrontano i Paesi europei per il rapporto tra i dipendenti pubblici ed il totale della popolazione, allora risulta chiaro qual è la strada da percorrere. Se in Norvegia, il 16,1% della popolazione è un dipendente pubblico, in Svezia il 14,5%, in Danimarca il 14,2%, in Finlandia l’11,2%, in Francia il 9,1%, l’Italia è in fondo alla classifica col 5,6% del totale della popolazione.
Anche un Paese come gli USA, con una minore presenza dello Stato nell’economia rispetto all’Italia, ha infatti un rapporto dipendenti pubblici/popolazione (7%) superiore a quello italiano. Nel nostro Paese, in questa situazione già difficile, questo rapporto potrebbe peggiorare senza provvedimenti adeguati.
Nei prossimi due anni si stima che circa 500 mila dipendenti pubblici andranno in pensione. Il rischio è che la macchina amministrativa, già in difficoltà, si blocchi del tutto proprio nella fase della ripartenza. Bisogna avviare immediatamente un ciclo di concorsi per immettere nelle pubbliche amministrazioni dipendenti qualificati, laureati e con esperienza, aperti alla capacità di utilizzo di nuove tecnologie.
Per un Paese moderno è necessaria una nuova classe di funzionari qualificati, che sappiano utilizzare bene l’innovazione tecnologica e che siano capaci di adattarsi velocemente ai cambiamenti, valorizzando anche le competenze trasversali tecniche ed attitudinali. La PA non può essere considerata la soluzione occupazionale ai problemi sociali come è avvenuto in passato, ma deve essere uno strumento efficiente per risolverli.
La definizione di un miglioramento complessivo del Digital Economy and Society Index passa certamente da un nuovo approccio nella pubblica amministrazione, da una nuova e adeguata classe di personale e da una nuova modalità di rapporto con cittadini e aziende.
*prof. Piero David, economista del Cnr