L’11 giugno del 1955 la 24 Ore di Le Mans, una delle più famose gare di automobilismo del mondo, divenne teatro del peggior incidente nella storia del motorsport. Una manovra poco ortodossa di Mike Hawthorn, all’epoca anche pilota di Formlua 1 in Ferrari, portò allo scontro la Austin Healey di Lance Macklin e la Mercedes guidata da Pierre Levegh.
Nell’esplosione della sua vettura Levegh perse la vita, e alcune componenti volate tra gli spettatori uccisero 82 persone, altre 120 rimasero ferite. Il disastro di Le Mans è ancora oggi, a 65 anni di distanza, uno dei momenti più tragici nella storia dell’automobilismo. Da quel giorno sarebbe cambiato per sempre il concetto di sicurezza nel mondo della velocità.
In quei giorni di giugno nel piccolo comune della Loira erano arrivati 200mila, forse 300mila spettatori da tutto il mondo, la maggior parte si era accampata il giorno prima della partenza. Si erano sistemati al centro del circuito – lungo oltre 13 chilometri – in quel “Le Village” in cui c’era un po’ di tutto ed era diventata una piccola città di svago e divertimento.
Sul circuito si sarebbero sfidate alcune delle più grandi star del momento: Juan Manuel Fangio, Stirling Moss, Mike Hawthorn e Peter Collins, già protagonisti in Formula 1, seguiti da piloti meno conosciuti. Quell’edizione della 24 Ore di Le Mans era segnata soprattutto dal confronto tra grandi case automobilistiche: c’erano Aston Martin, Ferrari, Jaguar, Porsche, ma gli occhi erano tutti puntati sulla Mercedes, che sarebbe tornata dopo l’assenza del biennio 1953/54 che aveva seguito il trionfo del 1952.
La scuderia di Stoccarda presentò per l’occasione le nuove 300Slr color argento progettate dall’ingegnere anglo-tedesco Rudolf Uhlenhaut: le prime vetture a correre a Le Mans con iniezione di benzina. La vera particolarità di quelle auto era un flap sul posteriore che avrebbe compensato l’assenza di freni a disco: la 300Slr equipaggiava ancora quelli a tamburo. La Mercedes si era presentata da favorita al suo ritorno, con automobili probabilmente fuori scala per tutta la concorrenza.
Quando Charles Faroux, nel 1923, aveva ideato la 24 Ore di Le Mans, l’aveva immaginata come un banco di prova per le auto regolarmente prodotte e poi messe sul mercato. Quindi macchine sportive, ma anche alcune di uso comune. In pochi anni, però, quella gara si era trasformata in una vetrina per vetture da corsa che vestivano una carrozzeria diversa.
Per i suoi nuovi bolidi la casa tedesca aveva composto tre equipaggi: il primo aveva Fangio e Moss; André Simon e John Fitch erano le seconde guide; e Karl Kling e Pierre Levegh erano i piloti dell’ultima vettura.
Proprio Levegh aveva sviluppato un rapporto particolare con quel circuito. Appena diciottenne aveva assistito alla prima edizione della gara, e da quel momento il suo sogno era vincerla. Avrebbe potuto farlo nel 1952, alla guida di una Talbot Lago. Ma ruppe il motore – si dirà, per un errore in un cambio di marcia – a poco più di un’ora dal termine della gara, quando aveva diversi giri di vantaggio sul secondo. Quel giorno aveva stranamente deciso di fare tutto da solo: corse 22 ore senza mai cedere il volante al compagno di squadra. Alla fine a portare a casa il trofeo di quell’edizione fu proprio la Mercedes di Lang.
Nel 1955, a cinquant’anni, aveva forse l’ultima occasione, alla guida di una Mercedes impareggiabile. Già nelle qualifiche, però, Levegh (che portava il cognome dello zio, Veghle, ma anagrammato) era stato il più lento dei piloti Mercedes: qualcuno dirà che era intimorito da quel motore così potente.
Una volta partiti, regolarmente alle quattro del pomeriggio, i più veloci sono Fangio e Hawthorn, rispettivamente a bordo di Mercedes e Jaguar. Levegh, leggermente più dietro, prova a recuperare lo svantaggio accumulato nelle prime due ore di gara quando Hawthorn sterza e frena improvvisamente per andare ai box.
Poi l’incidente, la cui ricostruzione è stata possibile grazie alle telecamere delle riprese televisive che proprio in quegli anni iniziavano a diffondersi nelle case.
Era Mike Hawthorn a guidare la colonna di auto che sfrecciavano sul rettilineo principale. Aveva appena sorpassato la Austin Healey di Lance Macklin, doppiandolo. Poi decise di rientrare ai box: si spostò sulla destra e frenò di colpo. Quando Macklin vide le luci dello stop sulla Jaguar D-type di Hawthorn capì che era troppo tardi: non avrebbe fatto in tempo a rallentare, e per evitare l’impatto ad alta velocità sterzò verso sinistra, ma finì per tagliare la strada alla Mercedes argentata di Pierre Levegh, che viaggiava ad altissima velocità.
Il tamponamento fu inevitabile: l’auto di Levegh urtò la Austin di Macklin che funse da rampa, la Mercedes schizzò in alto e si schiantò sulla piccola barriera che divideva la pista dalla tribuna, prendendo fuoco.
L’orologio segnava le 18:26. La corsa non venne interrotta: gli organizzatori successivamente spiegarono che la scelta fu presa per impedire che la calca creata con la confusione del pubblico ostacolasse i soccorsi. La Mercedes, una volta capito l’accaduto, ritirò le auto ancora in gara. Ma la corsa continuò per oltre ventuno ore e Mike Hawthorn – uno dei protagonisti coinvolti del disastro – andò a prendersi il titolo di campione.
Quell’11 giugno 1955 cambiò il mondo dell’automobilismo. Molte gare della stagione furono cancellate. La Svizzera vietò per legge le gare sul suo territorio: solo nel 2018 ha autorizzato le corse per i veicoli elettrici. La Mercedes si ritirò dalle competizioni, per tornarci solo alla fine degli anni Ottanta.
L’edizione della 24 Ore di Le Mans del 1956, l’anno successivo, venne presentata con grandi cambiamenti: l’abbassamento della pista rispetto alla zona degli spettatori, la costruzione di una tribuna e di nuovi box, la modifica ad alcuni tratti del circuito. Da allora le misure di sicurezza, dai dispositivi di sicurezza a bordo delle auto a tutto quel che riguarda la protezione del pubblico, avrebbero avuto un valore diverso nella scala di priorità.
Le Mans è, ancora oggi, uno dei punti fermi dell’automobilismo quando si parla di gare di velocità. Merito anche del film del 1971 con Steve McQueen, e anche di grandi piloti che si sono alternati in pista: l’ultimo a trionfare, nelle edizioni 2018 e 2019, è Fernando Alonso. Ma la tragedia di 65 anni fa rimane ancora uno dei momenti più bui del motorsport.