Ha fatto notizia lo stop opposto mercoledì scorso dalla Conferenza episcopale italiana alle proposte di legge contro la omo e transfobia in discussione alla Camera e la denuncia di “derive liberticide” e censorie delle opinioni espresse dai cattolici sull’etica sessuale, familiare e riproduttiva. È uno dei pochi casi in cui anche la Chiesa italiana sceglie di schierarsi contro il cosiddetto “correttismo” progressista, usando un argomento capziosamente libertario, normalmente utilizzato da una destra con cui la Chiesa – e anche la Chiesa italiana – ha sempre più forti motivi di frizione.
Se ci fosse una ragione teologica per questa resistenza ecclesiastica al politicamente corretto “sessuale”, ci sarebbe almeno una spiegazione razionale per questo eterno ritorno dell’identico, per questi riflessi pavloviani che portano i porporati (non tutti) a rizzare il pelo ogni volta che in Parlamento entra una proposta di legge “anti-omofobica” e a battagliare rumorosamente in difesa della libertà di pensiero minacciata o conculcata dalle lobby Lgbt.
Invece c’è una ragione più banalmente e prosaicamente psicologica e dunque, per paradossale che sembri l’esercizio, bisogna tentare una spiegazione irrazionale, come sempre accade quando dietro un comportamento non c’è un interesse e una valutazione di convenienza, ma un trauma o un conflitto irrisolto.
Nell’articolo di Francesco Lepore si spiega benissimo perché le preoccupazioni della Cei sulla criminalizzazione della morale sessuale cattolica siano, anche tecnicamente, infondate. Ma è molto significativo il fatto che la Cei, in modo sincero, senta il bisogno di tutelarsi da un pericolo che non esiste e che vede solo lei, e che molti politici fanno finta di vedere solo per accaparrarsene i favori.
Per fare un passo avanti, facciamo un passo indietro. I crimini d’odio non sono reati d’opinione, cioè non sono liberi pensieri perseguiti solo perché difformi da un principio di verità convenzionalmente imposto. I crimini d’odio sono quelli per cui non occorre che alle parole segua un fatto, perché un fatto giuridicamente illecito possa dirsi compiuto. La legge Mancino, a cui le proposte in discussione in Parlamento si agganciano, punisce infatti non solamente la violenza e l’istigazione alla violenza, ma anche atti di discriminazione e di incitamento all’odio per motivi religiosi, razziali, etnici e nazionali.
Esistono comprensibili riserve libertarie circa la legittimità di norme che “puniscano le parole” – né d’altra parte quelle sull’hate speech sarebbero le sole norme di questo tipo – ma queste riserve riguardano la scelta di considerare la dignità morale e sociale di individui o di gruppi sociali meritevole di tutela penale.
Fatta la scelta per il sì, ritenere che la propaganda dell’odio religioso e razziale sia più specifica e offensiva della propaganda dell’odio per motivi sessuali non è libertario, ma è palesemente contraddittorio anche rispetto al canone libertario. Non basta certo sostenere, come fanno molti prelati, che “identità di genere” e “orientamento sessuale” siano classificazioni incerte e discutibili, perché disancorate dal sesso biologico, per concludere che l’odio verso chi li rivendica in termini identitari possa considerarsi meno offensivo, afflittivo e violento.
È sempre più evidente che nel dibattito pubblico il vittimismo degli odiatori annega la vittimizzazione degli odiati in una querimonia libertaria. Non avviene solo con vittime Lgbt, ma anche con minoranze etniche e religiose. Però in questo caso la Cei non insorge a difesa della libertà di parola, non si preoccupa della polizia del pensiero. Va bene punire l’odio antisemita. Va benissimo punire l’odio suprematista. Ma l’odio anti-Lgbt no.
Perché? Perché la Chiesa non ha più quel problema, nel caso della discriminazione religiosa, o non l’ha mai avuto, nel caso della discriminazione razziale. Non ce l’ha proprio come Chiesa, come istituzione. Milioni di cattolici in Italia sono razzisti, ma la Chiesa no. Altrettanti – tendenzialmente gli stessi – sono antisemiti, ma la Chiesa no. Invece il pregiudizio anti-LGBT rimanda a una ferita ancora aperta nel corpo della Chiesa e nel cuore della sua dottrina.
L’esempio che si fa più spesso – anche in ambienti ecclesiastici – per denunciare i rischi della deriva anti-omofobica è quello della possibile criminalizzazione dei sacerdoti che esprimono la propria contrarietà ai matrimoni gay o alle adozioni da parte di persone omosessuali. È un esempio sinceramente desolante. Forse qualcuno è mai stato perseguito in Italia per propaganda dell’odio religioso per avere sostenuto che la poligamia islamica è incompatibile con lo stato di diritto occidentale, o, al contrario, che sarebbe adattabile al nostro ordinamento giuridico?
Neppure nel campo, per definizione scivoloso, del rapporto tra norme dello Stato e la “vita pubblica” delle religioni è mai esistito, in base alla legge Mancino, il rischio di reprimere la libera espressione di valori religiosi, che, anche se ortodossi e radicali, non hanno niente a che fare con l’odio, che non è amore e devozione per la propria identità, ma disprezzo per quella altrui. Per dirla in modo molto semplice, si tratta della stessa differenza che passa tra il patriottismo e il nazionalismo.
La Chiesa insorge contro le leggi sui crimini d’odio anti Lgbt non perché difende una propria verità, ma perché si difende da una contraddizione dolorosa. Al di là dello spigliato eclettismo pastorale di Bergoglio – “chi sono io per giudicare?” – la dottrina è rimasta quella ratzingeriana, l’omosessualità è rimasta ufficialmente una inclinazione disordinata, a cui non è possibile accordare alcuna giustificazione morale e che esclude chi ne sia “affetto” dai servizi moralmente più sensibili: il sacerdozio, l’insegnamento, l’educazione morale e fisica dei bambini… Insomma, l’omosessualità è ancora formalmente una colpa inemendabile, un vizio incorreggibile e una malattia fisico-morale contagiosa.
Ecco perché la Chiesa ha paura. Non perché tema che un giudice condanni un vescovo che si pronuncia contro le adozioni da parte delle coppie dello stesso sesso, ma perché teme che un buzzurro chieda l’allontanamento di un istruttore gay da una palestra di giovani o di un maestro gay da una scuola elementare citando a sostegno, tra un insulto e l’altro, i documenti della Congregazione per la dottrina della fedevergati di suo pugno dal Papa emerito. La Chiesa – qui sta il trauma non assorbito, il conflitto non risolto – sa di non potere più seguire e di non potere ancora rinnegare quella linea apertamente discriminatoria, soffre dolorosamente questa contraddizione e vorrebbe non esserne chiamata a rispondere.