La scena è impressionante. Paradossale, anche. Come tutto (o quasi) è paradossale quando si parla di razzismo in America. Una folla furiosa ha umiliato pubblicamente Jacob Frey, sindaco di Minneapolis. Jacob Frey, 38 anni, ebreo, è un sindaco democratico, addirittura un radicale, aderente al Minnesota Democratic-Labor Party. Insomma, uno che difficilmente si trova a destra di qualcun altro, anche fra i Democratici.
Non solo, ma è stato il primo, dopo l’uccisione di George Floyd, a chiedere l’arresto dell’agente il cui ginocchio ha pesato per oltre sette minuti sul collo della vittima. Jacob Frey ha spiegato con dettaglio minuzioso, fermo, inflessibile quanto tempo avesse avuto l’agente per mollare la presa; ha contato i minuti e i secondi che sono passati dal «I can’t breath» (non posso respirare) alla morte di George Floyd. Lo ha detto alla stampa senza remore.
La scena della sua umiliazione si può vedere su internet: c’è una folla riunita a Minneapolis con un’attivista afro-americana che si rivolge a Frey, il quale indossa una mascherina nera con su scritto «I can’t breath», chiedendogli una «yes or not question»: vuole l’abolizione della polizia, «We don’t want no more police». Proprio così. Davanti a lei un cartello esplicita chiaramente la richiesta «Police abolition now». Jacob Frey risponde: «I do not support the full abolition of the police». A quel punto la folla lo contesta, gli grida «shame», vergogna, e promette di non rieleggerlo alle prossime elezioni. Jacob esce di scena.
Perché questo racconto così dettagliato? Non per sottolineare una richiesta impossibile, perché non c’è un posto al mondo che non abbia una forza di polizia, ma per descrivere il primo paradosso: il sindaco più democratico, più vicino alle minoranze, quello che per primo ha chiesto giustizia per George Floyd diventa il bersaglio numero uno dei contestatori. Stessa sorte è capitata al sindaco, sempre democratico, sempre radicale, di New York. La linea tracciata è diventata un solco.
Il solco da colmare, ma anche l’unica possibile redenzione, è nella natura stessa degli Stati Uniti, l’unico stato al mondo nato esplicitamente per affermare il principio che «gli uomini siano stati creati uguali e liberi e che ognuno abbia il diritto di perseguire la felicità». È evidente che nessun altro principio è più distante dal razzismo. Il principio ha le radici morali nel cristianesimo e non poteva essere altrimenti.
Infatti, il razzismo coincide con lo schiavismo, nasce dallo schiavismo, è stato alimentato e perpetuato dallo schiavismo. Lo schiavismo è stato cancellato, attraverso una storia complicata che meriterebbe di essere raccontata, e proprio per le conseguenze del messaggio cristiano. Se ogni uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, come ci possono essere uomini ridotti in schiavitù?
Come sappiamo, la schiavitù imperava durante l’impero Romano e ancor prima nelle città greche. Anzi, proprio nella cultura greca lo schiavismo era legittimato al massimo livello: Aristotele aveva parlato «schiavitù per natura», cioè che alcune persone hanno uno status che li porta “naturalmente” a essere di proprietà di altri uomini.
Gli stessi americani, cioè i primi coloni che arrivavano dall’Inghilterra, dove la schiavitù non era praticata, hanno avuto gli schiavi dagli spagnoli, e principalmente dai portoghesi, specialisti in quel commercio tra l’Africa e i Caraibi nel periodo storico in cui si sono formati gli Stati Uniti.
A chi scrisse la Costituzione americana già allora apparve evidente la contraddizione tra i principi costitutivi del nuovo Stato, uno Stato che non nasceva da una nazione (o dallo storytelling delle sue origini, come per quasi tutti paesi, dall’Inghilterra alla Francia, dalla Germania all’Italia) ma sulla base di idee nuove e rivoluzionarie, appunto di eguaglianza e di libertà e da un altro principio universale, che nessuno fosse sopra le leggi, neppure il re.
Era evidente che se nessuno poteva stare sopra le leggi, ugualmente nessuno poteva stare sotto le leggi. Questa contraddizione tra un paese che dichiara il senso della sua esistenza (e del suo destino) nell’uguaglianza e nella libertà (non nel principio della nazione, o della razza, o di qualunque altra eredità storica) l’assenza di riferimenti allo schiavismo era destinata a esplodere.
Ed esplose in tantissimi modi, tanto che l’abolizione dello schiavismo costò agli Stati Uniti persino una guerra civile, e l’assassinio del Presidente repubblicano che l’abolì, Abramo Lincoln. Proprio Lincoln, consapevole che lo schiavismo/razzismo, come ogni male, alberga in ognuno, e che per sconfiggerlo bisogna richiamarsi alla parte migliore di sé stessi («better angels of our nature»), ne fece l’argomento centrale del suo discorso di insediamento alla Casa Bianca.
I principi di libertà e di uguaglianza e della ragione che li guida, di questa particolare uguaglianza che include tutte le razze, hanno agito come una legge d’attrazione: quasi come l’amore dantesco «che move il sole e l’altre stelle», e hanno fatto un lavoro di scavo, perché non bastano (anche se sono necessarie) le leggi, ma bisogna cambiare atteggiamenti, percezioni, prospettive di tutte le parti in causa, e serve tempo. E serve farlo con la democrazia.
La democrazia, quando funziona, quando è vera, quando è «il modo attraverso cui sono istituti i governi, che traggono i loro poteri legittimi dal consenso dei governati», non nasconde i problemi, ma li guarda in faccia, li affronta e cerca le soluzioni. Per farlo ha però sempre bisogno del “consenso dei governati”. E questo non è un dettaglio. Le dittature partono dal presupposto che il governo del popolo non appartiene al popolo, ma è esercitato da una persona sola (come un re) in suo nome, il quale se ne arroga il diritto di farlo per sempre, senza controlli e senza il consenso dei governati.
Il populismo, invece, esternalizza il nemico. Noi siamo sempre i buoni, puri e innocenti, mentre i cattivi sono sempre gli altri, che poi sia l’élite, un altro paese o un’altra razza non importa. La democrazia non è l’abolizione del male, ma è il modo attraverso cui il male viene discusso, affrontato e, possibilmente, cancellato, per quanto la natura umana lo permetta, ovviamente.
Torniamo a Jacob Frey. La risposta dei generali, persone non certo radicali, di negare a Trump l’intervento dell’esercito è un’altra prova della forza della democrazia americana, e segnatamente dell’idea che il governo viene dal popolo, e lo Stato non può essere uno strumento politico contro il popolo. Sono le idee costitutive che ritornano, di volta in volta, quando si vede che l’operato di chi ha temporaneamente il potere se ne allontana.
È evidente la strategia di Trump: un paese in preda alla paura; un paese spaventato; un paese terrorizzato dalla violenza (il cui prezzo è stato pagato anche da David Dorn, un poliziotto afro-americano in pensione, ucciso in diretta su Facebook dai saccheggiatori mentre difendeva il negozio di un amico) non sarà molto propenso ad accettare una riforma delle regole d’ingaggio della polizia. Anzi, la sua speranza più grande è che la radicalizzazione sociale, la divisione in due parti incomunicabili dell’America, finisca per garantirgli la rielezione. Se tutti diventano estremisti, vincerà l’estremista più forte, e l’impressione è che se questo avverrà, Trump abbia ancora una chance di vincere.
Chance molto ridotte, invece, le avrà se l’America ritroverà dappertutto i migliori angeli della sua natura, pronti a suggerire un altro passo verso un’effettiva uguaglianza, inclusa quella di razza, in tutti i risvolti della vita sociale. Se quel solco sarà colmato dalle due parti, vorrà dire che quei principi universali, su cui si basa il grande “esperimento” americano, di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo saranno ancora all’opera. In un momento in cui nel resto del mondo, anche dove non dovrebbe essere, quei principi universali sono dimenticati, offuscati, o addirittura negati, è necessario che quella legge d’attrazione viva.