Le proteste che da quasi dieci giorni animano le strade degli Stati Uniti hanno avuto un grande impatto in Europa. In particolare in Germania, dove il mondo dello sport – più avanti rispetto al resto del continente nel ritornare lavorare a pieno regime – sta facendo da cassa di risonanza per le manifestazioni di solidarietà.
Il campionato di calcio tedesco è già ripartito e alcuni giocatori hanno colto l’occasione per lanciare un messaggio. Due giocatori del Borussia Dortmund, Jadon Sancho e Achraf Hakimi, hanno mostrato una sottomaglia con una scritta fatta a mano, anche un po’ grezza: «Justice for George Floyd». Un gesto simile lo ha fatto il giocatore americano dello Schalke 04 Weston McKennie indossando una fascia al braccio con la stessa scritta. E poi Marcus Thuram, figlio di Lilian, ex giocatore di Juventus e Parma, ha celebrato un gol inginocchiandosi sul terreno di gioco riprendendo uno dei gesti più iconici delle proteste.
Il regolamento della Bundesliga non consentirebbe manifestazioni di questo tipo: la Federcalcio tedesca (Dfb) impedisce ai giocatori espressioni di natura politica sui campi, e in un primo momento aveva annunciato di aprire un caso, con la possibilità di comminare sanzioni o addirittura squalificare gli atleti.
È intervenuta la Fifa, con il presidente Gianni Infatino che ha chiarito la situazione: «Le recenti dimostrazioni dei giocatori in Bundesliga meriterebbero un applauso, non una punizione. Tutti dobbiamo dire no al razzismo e a ogni forma di discriminazione».
L’organo sovranazionale del calcio ha richiamato la Bundesliga al buon senso perché da anni fa campagne per sensibilizzare i tifosi di tutta Europa sulla diversità e l’inclusione. Come potrebbe ammettere che in uno dei campionati affiliati i giocatori vengano multati per manifestazioni di solidarietà verso una protesta antirazzista?
Sarebbe un controsenso, a maggior ragione in un periodo in cui sempre più spesso gli atleti europei seguono l’esempio dei loro omologhi americani prendendo posizione su questioni sociali legate all’attualità.
Gesti simili si erano visti anche nella pallacanestro tedesca. A pochi giorni dalla prima palla a due della massima divisione – il campionato riprenderà sabato – il playmaker dell’Ulm, Per Günther si è offerto di pagare per tutti i suoi colleghi i primi 10mila euro di multe, invitandogli altri giocatori a non esitare davanti alle telecamere. Un gesto plateale contro il divieto di manifestare in campo.
Una posizione l’aveva presa anche il ceo della squadra di basket del Bayern Monaco, Marko Pesic: «L’opposizione al razzismo non è una dichiarazione politica, ma uno stile di vita». La sua dichiarazione è stata accostata a una prima inflessibilità da parte del numero uno della pallacanestro tedesca Stefan Holz, che inizialmente aveva detto: «Facciamo sport, non dichiarazioni politiche», in una versione teutonica di quello «shut up and dribble» detto da una giornalista di Fox News a LeBron James due anni fa, andando contro ogni dogma della cultura sportiva e sociale degli Stati Uniti.
Mercoledì sera, però, Holz ha cambiato idea, spiegando che la Bbl non punirà i cestisti «dal momento che la lega da sempre è sinonimo di apertura e diversità, e che tutti in Germania sentono frustrazione per quanto sta accadendo negli Stati Uniti».
Alcuni atleti tedeschi si sono mostrati più empatici dei loro colleghi europei sul tema del razzismo negli Stati Uniti. È il caso di Dirk Nowitzki, simbolo del basket teutonico e per un ventennio giocatore dei Dallas Mavericks con cui ha vinto un titolo Nba. Il tedesco vive ancora in Texas e si è unito allo sconforto di chi in questi giorni affolla le strade degli Stati Uniti. «Sono devastato e triste. Ho paura del futuro dei miei figli», ha scritto su Twitter.
Forse ancor più di Nowitzki, il giocatore dei Washington Wizards Moritz Wagner, tedesco di Berlino, ha saputo emulare l’attivismo politico degli atleti americani. «Non limitarti a sederti e ignorare ciò che sta accadendo solo perché è più facile», ha scritto sui suoi profili social.
A differenza dei loro colleghi americani, nello sport europeo è raro vedere giocatori schierarsi apertamente per una causa politica o sociale. Solo negli ultimi anni la tendenza sta cambiando. Il fenomeno si sta radicando di più in Germania anche perché la Bundesliga tedesca ospita la maggior parte dei migliori talenti americani che giocano nei grandi campionati europei. Più o meno la metà formazione titolare della Nazionale statunitense.
C’è un motivo strettamente sportivo dietro questo legame ed è dovuto all’abitudine delle squadre tedesche di mandare in campo talenti ancora molto giovani, senza troppi pregiudizi: 16 club su 18 hanno un’età media, calcolata tenendo conto dei minuti in campo, inferiore ai 27 anni. In questo modo è più facile anche convincere i giocatori più giovani a trasferirsi in Germania, sapendo che avranno maggiori opportunità rispetto ad altri campionati.
Il calcio americano offre una sponda interessante, perché non richiede premi o compensi per lo sviluppo dei talenti nelle giovanili. E molti giocatori diventano professionisti più tardi rispetto ai colleghi europei (generalmente per finire gli studi).
Così i migliori giovani sono disposti a trasferirsi e possono firmare a parametro zero. Non è un caso se due grandi promesse della Bundesliga oggi sono Alphonso Davies, terzino canadese del Bayern, e Gio Reyna, trequartista statunitense del Borussia Dortmund. La dimostrazione, se le manifestazioni non bastassero, che mai come in questi giorni, la distanza tra Minneapolis e Berlino sembra azzerarsi.