Dalla Russia con hackerPutin non ha più bisogno di infiltrarsi alla Casa Bianca, gli basta suonare il campanello

Quattro anni dopo, per il Cremlino è molto più facile manipolare il voto americano. Il dibattito politico è già inquinato, le fake news sono all’ordine del giorno, gli elettori polarizzati al massimo. Se Mosca ha intenzione di interferire sulle elezioni, come ha fatto nel 2016, troverà la strada spianata

Frederic J. BROWN / AFP

Ci sono due modi per hackerare un’elezione. Il primo, più facile ma dal risultato non garantito: avvelenare i pozzi delle verità e del dibattito, diffondendo fake news, sguinzagliando trolls, suscitando rabbia, divisione, sfiducia negli elettori. Il secondo, più difficile e pericoloso ma dal risultato infallibile: taroccare, fisicamente, il voto.

La Russia, per le prossime elezioni Usa, potrebbe provare a usarli entrambi. L’allarme sul fatto che Mosca abbia tutto l’interesse e la volontà di interferire con il voto americano (come e più di quanto fatto nel 2016) arriva da numerose inchieste e rapporti.

Uno di questi, firmato niente meno che dall’Fbi, dice che se, causa covid, il voto dovesse spostarsi online, il pericolo di hackeraggio straniero dei sistemi di conteggio è «very high». In pratica, quel che dice l’Fbi è che uno smanettone mediamente bravo potrebbe cancellare, cambiare, annullare milioni di schede senza che nessuno se ne accorga. Oppure, peggio ancora, potrebbe essere più astuto e sottile, lasciare traccia e, per così dire, “farsi beccare”. In questo modo, il risultato elettorale, qualunque risultato, sarebbe delegittimato e il caos assicurato.

Ma, come dicevamo, per truccare un’elezione non serve (più) truccare il voto. Basta muoversi con anticipo e mandare in tilt campagne elettorali e teste degli elettori.

Nel 2016, a leggere quel che scrive il rapporto dell’inchiesta di Robert Mueller sulle interferenze russe nell’elezione di Donald Trump, la cosa ha funzionato alla grande. In quel tempo lontano (sono 4 anni), furono prima violati i server di posta del Partito Democratico e poi quelle del Presidente della campagna di Hillary Clinton, John Podesta; nel frattempo, le pagine dei Ponzio Pilato di questi anni, i social network, venivano invase da milioni di post, meme, immagini, video creati con il preciso (e raggiunto) scopo di dividere le persone, confonderle, estremizzarle e farle schiodare davanti a un monitor.

Quella frattura, quell’attacco alla cosa che in ultima istanza è la sola che abbiamo, ossia la verità, non si è mai del tutto sanato.

Qualcosa è stato fatto, sì, dai social, che hanno chiuso migliaia di account e fatto un po’ di pulizia. Qualcosa è stato fatto, sì, dagli utenti che nel frattempo si sono fatti un po’ più furbi e attenti. Ma poca roba.

Anche perché mentre i big come Facebook o Google si stracciavano le vesti dichiarando che mai più avrebbero dato albergo a troll e fake news, e mentre i lettori si facevano un po’ più smaliziati, anche gli autori e gli spargitori di bufale e conflitto, si sono fatti furbi.

Scrive il Washington Post: «Le tattiche utilizzate dai cosiddetti troll o provocatori online si stanno evolvendo, diventando più furtive per evitare di essere rilevate e sfrattate dalle piattaforme dei social media. L’agenzia di ricerca su Internet collegata al Cremlino ora evita messaggi rivelatori con errori ortografici e scarsa grammatica».

Conferma il NYTimes che «i russi stanno facendo un uso più creativo di Facebook e di altri social media. Invece di impersonare gli americani come hanno fatto nel 2016, gli agenti russi stanno lavorando per convincere gli americani a ripetere i loro contenuti di disinformazione; lavorano da server negli Stati Uniti, e non all’estero, sapendo che alle agenzie di intelligence americane è vietato operare all’interno del paese; si sono anche infiltrati nell’unità di guerra cibernetica dell’Iran, forse con l’intento di lanciare attacchi la cui colpa potrebbe ricadere Teheran».

Quindi il piano per il novembre 2020 è lo stesso del 2016, fare casino con le elezioni americane. Ma con una variante: farlo meglio. E meglio oggi si può fare, perché, come visto, le tecniche di guerriglia social si sono raffinate, perché i colabrodo che erano i sistemi di sicurezza informatica delle macchine conta voti americane non sono mai stati riparati (ci vorrebbero 2 miliardi, il Congresso ha stanziato 400 milioni); perché, soprattutto, nel frattempo, ci sono stati quattro anni di Trump, il troll in chief.

Quindi non serve più inquinare il dibattito politico americano, perché è già distrutto. Non serve diffondere fake news, perché ci pensa già la Casa Bianca. Non serve spostare gli elettori agli estremi, perché ci pensa già il Presidente a uccidere ogni forma di dialogo e compromesso e a farne, come promesso il giorno dell’insediamento, carnage. Non serve più cercare di infiltrarsi alla Casa Bianca, basta suonare il campanello.

Per dire quanto, oggi, la sicurezza elettorale sia aperta e permeabile, basti sapere una cosa: lo scorso 13 febbraio al Congresso è stato presentato un rapporto di intelligence che metteva nero su bianco il fatto che la Russia stesse già allora interferendo con la campagna del 2020 per favorire Trump. Il contenuto del report è stato riferito, come da prassi, al Presidente che lo ha liquidato come «una macchinazione del deep state per danneggiarlo». E la questione è finita lì. Qualcuno avverta Joe Biden di non fidarsi troppo dei sondaggi.

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