Il mondo dopo la pandemiaLe difficoltà di Salvini e la nuova divisione tra globalisti e nazionalisti

Al centro del discorso pubblico non saranno più gli immigrati, ma la faglia tra chi vuole innovare e crescere (anche rischiando) e chi, confortato dalla sindrome della grotta, accetta il declino per evitare il cambiamento

Alberto PIZZOLI / AFP

Quali sono le ragioni profonde del declino di Matteo Salvini? Oppure, com’è cambiata in questi mesi la sensibilità collettiva, cioè della gente comune? Quale leadership nuova, uguale, diversa s’intuisce per il futuro prossimo?

Chi ha la fortuna, e la possibilità, di vedere attraverso l’intelligenza artificiale e un “deep learning” dei social media l’evoluzione molecolare dell’opinione pubblica, può provare a rispondere con qualche strumento in più.

È possibile, anzi è certo, che Salvini abbia fatto singoli errori, ma non contano, o non contano abbastanza. Conta, invece, una regola della politica spesso ignorata: vince chi è egemone sugli argomenti più sentiti e condivisi in un dato momento.

Detto in altro modo: vince chi egemonizza il campo semantico che crea maggiori emozioni collettive. Detto con altre parole ancora: vince chi sa dare la risposta più attesa sugli argomenti di cui si discute al momento. E la discussione è quella data dalle conversazioni quotidiane di chiunque con chiunque, dovunque.

Quali erano, prima del Covid, gli argomenti più discussi nella base della piramide sociale, quella che decide – ok, non sempre – fortune e fallimenti della contesa politica?

Al primo posto c’era l’immigrazione, con tutto il suo impressionante carico emotivo e identitario. Da cinque anni questo argomento si è imposto di gran lunga come il principale argomento di discussione fra la gente comune.

Ovviamente, qui non si dice che sia stato giusto che l’immigrazione fosse il principale argomento, o che lo fosse il modo in cui si è svolta la discussione. Ci si limita a far notare che, per un lungo periodo di tempo, la gente comune, riferendosi alle discussioni di interesse collettivo, ha parlato soprattutto di immigrazione.

Al secondo posto, con qualche distanza, c’erano i timori per la criminalità comune e per la sicurezza pubblica. Altri argomenti, come il lavoro e l’economia, avevano il loro peso, ma senza raggiungere mai la popolarità dei primi due argomenti.

Chi è stato egemone, nel senso gramsciano, cioè ha conquistato la società culturalmente (che oggi attualizzeremmo con emotivamente) sulle idee prevalenti su questi due argomenti?

È stato Salvini, la cui ascesa, se si potesse avere un grafico per rappresentarla, è andata di pari passo all’affermarsi del tema immigrazione (e criminalità): più cresce il tema, più cresce Salvini; più cresce Salvini, più cresce il tema.

Qualche volta accade anche (più spesso di quel che si creda), che il ruolo del leader sia ribaltato rispetto alla sua stessa definizione: il leader in parte agisce, cioè crea consenso e mobilitazione intorno a sé, ma più volte è agìto dalla popolazione. Significa che la popolazione seleziona il leader più adatto per affermare le sue idee.

È un fenomeno che possiamo definire di “darwinismo politico”, visto dalla prospettiva della base della società. Che poi ci si possa trovare davanti a leader che allo stesso tempo agiscono e sono agìti è naturalmente una possibilità. E nel caso di Salvini non può certo essere esclusa.

Arriva l’epidemia. L’emozione collettiva si sposta radicalmente e immediatamente sulle emozioni dell’ansia, del pericolo e della paura. Tutto all’improvviso scompare: non esiste più niente, non esistono gli immigrati, non esiste la criminalità (anche perché il lockdown ha praticamente eliminato tutti i reati di strada). Esiste solo il virus che egemonizza emotivamente la collettività. A un certo punto, l’immaginario collettivo si riduce alla sola icona del coronavirus. (Non ci sono studi comparativi, almeno non ancora, ma probabilmente l’Italia è il paese dove la reductio ad unum dell’emozione collettiva è stata massima).

«La paura condivisa unifica i popoli», aveva scritto lo psicanalista americano James Hillman più di vent’anni fa. E così è stato: il popolo italiano è stato unificato dalla paura del virus. Questa unione, almeno all’inizio, è stata perfetta, sorprendente e persino creativa, con la musica dai balconi, che ha sublimato e definito il sentire comune della nazione.

Poi le cose si sono andate via via sfrangiando in modi anche abbastanza prevedibili, almeno per chi vede l’ambiguità e la volatilità di ogni emozione collettiva fondata su un nemico atipico e politicamente non definibile come il virus.

Il governo, e in particolare il Presidente del Consiglio, nella prima fase dell’emergenza hanno conquistato l’egemonia perché hanno svolto un ruolo di unificazione nazionale come raramente si vede.

L’argomento egemone, anzi totalizzante, è stato il virus e il Presidente del Consiglio, insieme al governo, è stato selezionato dalla popolazione come quello più adatto a rispondere all’emergenza, anche perché richiamato dal ruolo istituzionale. Il linguaggio usato, nonostante le sue vaghezze, o forse proprio per le sue vaghezze, si è cucito perfettamente addosso al corpo sociale segnato dall’emergenza.

Se si formano nuove issue, il gioco dell’egemonia ricomincia su basi nuove e vengono selezionate nuove leadership. In questo frangente Salvini è sembrato asincrono, per gesti, modi e parole: adatte al mondo di prima, ma non al mondo di dopo.

Che le questioni non fossero “tout court” politiche, nel senso tradizionale del termine, si è visto per l’emergere della nuova leadership del governatore del Veneto Luca Zaia, anche lui della Lega. Non è stata “politica”, è stato un diverso set di leadership (mix di linguaggio, proposte, decisioni, presenza personale, ecc.).

L’emergenza ha selezionato nuovi leader: oltre a Zaia, anche i presidenti di Emilia Romagna e Campania, cioè Stefano Bonaccini e Vincenzo De Luca sono apparsi appropriati, decisionisti, rassicuranti.

La differenza non è stata politica, ma di stile di governo. Avendo la gente cancellato “la politica” nel senso tradizionale del termine, ha vinto la costruzione (gestione) politica dell’emergenza: come affrontare il problema dell’epidemia, qui e ora; questa era l’unica issue, e questa era l’unico modo per valutare le leadership.

Si è creato perciò un nuovo “set” di criteri per cui si giudica, si segue o si utilizza un leader. I tre elementi caratteristici sono stati il linguaggio anti-retorico (anche le metafore di De Luca avevano un istinto pratico), la flessibilità di governo, adeguando le risposte alla situazione reale; un rapporto quotidiano (come il modello presidenziale americano) con la popolazione.

Insomma, è la prima volta che l’appellativo governatoriale ha coinciso con la realtà effettiva del ruolo. Sono diventati governatori adesso.

Torniamo alle emozioni popolari, e alle dinamiche dei sentimenti politici senza politica.

La paura è penetrata, inesorabilmente, nei gangli più arcani dei pregiudizi, perciò è tornato lo Stato come soggetto “paterno”; è tornata l’autorità (dal Presidente del Consiglio al vigile urbano; dai virologi ai direttori dei supermercati); è tornata la diffidenza verso l’altro (fosse anche, anzi di più, il vicino di casa); soprattutto è tornato il bias dello scontro (e del non reciproco riconoscimento morale) del Nord e del Sud, che proprio la percezione/induzione del “nemico” comune rappresentato dagli immigrati aveva assopito.

L’esplosione emotiva ha via via ha creato “nemici” accidentali: i runner; gli amanti dell’aperitivo e così via. Però la questione economica ha immediatamente creato una falda nuova che si è progressivamente allargata, tra i garantiti e non garantiti, cioè tra coloro che, nonostante il lockdown non hanno perso nulla (o quasi): dipendenti pubblici in primis, ma anche dipendenti a tempo indeterminato delle aziende private e chi ha perso tutto o molto: professionisti, commercianti, albergatori, precari e così via.

Si sono formati così due partiti anomali: il partito della prudenza e della riapertura “slow” e il partito della riapertura ampia e veloce.

Questa falda specifica, quella cioè della riapertura, si sta rapidamente ricomponendo, perché la riapertura è oramai un fatto, anche se rimane il buco abnorme, inspiegabile, terribile della scuola perennemente chiusa e senza neppure certezza di apertura a settembre. È rimasta la falda dei protocolli, ma anche quella sembra destinata, col tempo, a rimarginarsi.

Siamo adesso nella fase del rilancio e stanno tornando prepotentemente le divisioni politiche più rilevanti e più tradizionali.

Quale modello serve all’Italia, o meglio come l’Italia rispecchia sé stessa in questo momento? Quello statalista, rassicurante, di difesa, ancora consonante con l’emergenza (e la sua ideologia) oppure quello più aperturista, imprenditoriale, sicuro di sé, più lontano dalle emozioni dell’emergenza?

Sulla prospettiva non c’è un vincitore netto (cioè un set di idee in grado di egemonizzare il sentire collettivo): ci sono correnti marine, sotto e sopra traccia, che si fanno sentire e ciascuna esercita la sua pressione, ma nessuna al momento sembra vincente. L’esercizio predittivo non è facile.

Detto brutalmente, parte della popolazione si stringe le spalle dentro la paura e dentro le sue conseguenze, e vorrebbe perpetuare una sorta di lockdown sottile, leggero e ubiquo, per cui si può anche avere meno reddito, si può avere un settore pubblico chiuso o semi-chiuso, si può consumare di meno, si può viaggiare di meno, alla fine si può anche lavorare di meno.

È il sentire consonante con lo strato più profondo della sensibilità nazional-popolare, esercita il suo fascino, è rassicurante.

Un’altra parte della popolazione sente, invece, i morsi dell’economia, sente che i suoi progetti sono minacciati dalla mentalità statalista, autoritaria senza autorità, dai labirinti dei protocolli e da tutto quel che aggiunge una cappa di autorizzazioni e controlli su qualunque cosa.

Non c’è solo l’economia, perché c’è un’idea di Paese molto diversa che vive dentro quest’atteggiamento. C’è l’idea che l’Italia debba misurarsi con il meglio del mondo, che abbia una sua strategia d’attacco, non di difesa.

Nel primo atteggiamento c’è l’idea dell’Italia sempre uguale (fedele) a sé stessa; nel secondo caso c’è l’idea di un’Italia che concorre sul futuro, cambiando, evolvendo, strappando rispetto alla sua consueta identità (comunque non restando intrappolata nel mix nostalgia-risentimento).

Un paese così che leadership s’aspetta? Le soluzioni sono due. La prima è che i leader di quell’insieme, anche confuso, ma non per questo meno reale, che si può sintetizzare nell’espressione “italiano, troppo italiano”, riescano a condurre (proporre) un’offerta politica che porti questo gruppo sociale (finalmente) dentro il mondo che possiamo definire in senso evocativo (perciò non letterale) globalizzato (sapendo che l’epidemia ha molto destabilizzato l’ideologia globalista).

La seconda ipotesi è che i “globalisti” capiscano (finalmente) che l’economia e il multiculturalismo non possono essere gli unici a plasmare la società, che anche i “tradizionalisti” hanno il diritto di difendere le loro radici; che alcuni valori si possono combattere, ma non delegittimare; che accanto al perseguimento della felicità delle persone c’è anche il perseguimento della felicità delle nazioni.

Ridotta alla sua essenza, la leadership nuova che si delinea ha due motori: uno “globalista”, perché sa che il mondo avrà forse meno voli aerei, ma non meno connessioni economiche, sociali, etiche.

L’altro sarà “nazionalista”, perché il welfare è nazionale per forza, perché l’identità nazionale fa identità personale, e non c’è bisogno di Heidegger per capirlo. È questa la combinazione che si può intuire dallo scavo profondo delle opinioni delle persone.

Chi l’interpreterà per primo e meglio degli altri?