Barack Obama parlerà in pubblico al fianco di Joe Biden in una raccolta fondi virtuale del prossimo 23 giugno. È il suo primo vero e proprio gesto di sostegno alla campagna elettorale dell’ex vicepresidente: finora si era limitato all’endorsement ufficiale dello scorso aprile.
La raccolta fondi è stata annunciata con una email che invita i sostenitori della campagna di Biden alla partecipazione con una piccola spesa. Nel testo della lettera è riportato anche un virgolettato dello stesso Obama, che intende coinvolgere gli elettori in vista di quelle che ha definito «le elezioni più importanti della nostra vita».
L’evento rappresenta un nuovo livello di supporto da parte dell’ex presidente nei confronti di Biden; fino a qualche mese fa Obama era rimasto in secondo piano sulla scena politica, lontano dai riflettori della vita pubblica: una conseguenza forse logica dopo otto anni di mandato. Nelle ultime settimane, però, qualcosa è cambiato.
In occasione delle proteste antirazziste causate dalla morte di George Floyd, l’entourage di Obama ha diffuso un video in cui l’ex presidente dice di non aver mai visto niente di simile in vita sua, e invita a sostenere le manifestazioni: «Se vogliamo portare un vero cambiamento, la scelta non è tra proteste e politica. Dobbiamo farle entrambe».
In questo caso ha cercato di raggiungere due obiettivi, come spiega Matteo Pretelli, professore di History and Institutions of the Usa all’Orientale di Napoli: «Non solo schierarsi al fianco delle proteste, ma anche rimediare al fatto che durante la sua amministrazione sia stato più volte accusato di essere color blind, un presidente che non guarda particolarmente alla comunità afroamericana».
Qualche giorno prima, a metà maggio, si era speso in un doppio discorso in video ai diplomandi delle high school e ai laureandi. A un certo punto, senza citarlo, ha attaccato duramente Donald Trump: «Questa pandemia ha finalmente alzato completamente il sipario sul fatto che tantissimi uomini al comando non sanno cosa fare. E molti di loro non stanno neanche facendo finta di essere al comando».
Il rinnovato impegno politico di Obama, che era stato velatamente critico con Trump anche durante il discorso di sostegno alla campagna di Biden («C’è un tipo di leadership fatto di onestà, umiltà, empatia e grazia che deve appartenere alla Casa Bianca»), è la dimostrazione che l’ex presidente è ancora una figura importante sullo scacchiere politico americano, soprattutto per il Partito Democratico.
Non necessariamente in una chiave di lettura solo positiva: è ancora capace di muovere consensi nell’opinione pubblica e può essere una spinta elettorale importante per Biden; ma i Democratici non riescono ancora a uscire dalla sua ombra, e non è un caso che sia proprio il suo ex vicepresidente il prossimo candidato a correre per la Casa Bianca.
«Premesso che la campagna elettorale dovrà guidarla Biden e dovrà vincerla lui dimostrando di essere un leader, va detto che Obama un personaggio di grande carisma, con un’aura quasi mitologica nel mondo democratico e scendendo in campo può essere un fattore, ma non può essere decisivo a prescindere da Biden», spiega Pretelli.
Intanto anche il presidente in carica ha in Obama un bersaglio prediletto, forse anche più dello stesso Biden, suo vero avversario a novembre.
Da quando è alla Casa Bianca Trump ha voluto buttar giù quanto costruito da Obama: ha provato a smantellare l’Affordable care act – Obamacare – senza esito, si è ritirato dagli accordi di Parigi, dall’accordo sul nucleare iraniano e dall’accrodo Trans Pacific partnership.
Trump ha anche cancellato il programma Deferred Action for Childhood Arrivals (Daca), che regolarizzava circa 800mila immigrati, i cosiddetti dreamers: i giovani arrivati negli Stati Uniti senza documenti o irregolarmente prima di aver compiuto 16 anni e che hanno vissuto negli Usa continuativamente, lavorando o studiando.
Mentre appena venerdì scorso ha abolito le tutele contro la discriminazione delle persone transgender in ambito sanitario introdotte proprio con l’Obamacare.
E poi ci sono gli attacchi diretti alla persona: dal “birtherism” – la teoria cospirazionista che accusa Obama di essere nato in Kenya, quindi illegittimo come presidente – all’Obamagate, il presunto scandalo che vedrebbe l’ex presidente tramare contro Trump sul cosiddetto Russiagate. Oltre un numero sconfinato di frecciatine: il Trump Twitter Archive conta la parola “Obama” circa 3.000 volte nei tweet del commander-in-chief dal 22 novembre 2010 ad oggi.
«Più di tre anni dopo aver lasciato la Casa Bianca, Barack Obama sembra aver ancora la residenza lì. Non nelle stanze, ma nella testa del presidente Trump», ha scritto Mark Z. Baraback sul Los Angeles Times.
L’ex Procuratore generale Eric Holder aveva detto in un’intervista a Politico lo scorso dicembre che «in un mondo perfetto Obama sarebbe stato meno presente sulla scena, più o meno come ha fatto George W. Bush».
I programmi di Obama a inizio 2017 comprendevano un periodo di vacanza, seguito dalla scrittura di un memoir (lui e l’ex First lady Michelle avrebbero ricevuto un anticipo da 65 milioni di dollari per i due libri), l’impegno nella sua Fondazione e una serie di conferenze in giro per il mondo – anche per conto di grandi società finanziarie – per cui ha ricevuto compensi fino a 400mila dollari.
Inoltre nel 2018 Barack e Michelle Obama hanno fondato la casa di produzione cinematografica Higher Grounds Productions, che ha un contratto da 50 milioni di dollari con Netflix.
L’impegno più politico è stata l’iniziativa “Redistricting U”, lanciata un anno fa, per combattere il gerrymandering: la strategia di ridisegnare i collegi elettorali secondo la convenienza di una specifica forza politica.
Nel suo ufficio del West End di Washington, poi, l’ex presidente avrebbe accolto molti esponenti del Partito Democratico, anche alcuni candidati alle ultime primarie, come ha raccontato Gabriel Debenedetti in un lungo reportage del 2018 sul New York Magazine: «Molti politici che ha incontrato sono esponenti di spicco del partito, come il senatore della Virginia ed ex candidato vicepresidente Tim Kaine, il sindaco di South Bend Pete Buttigieg, la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, il senatore del New Jersey Cory Booker. La maggior parte chiede a Obama consigli politici, personali o economici su cosa serva per mettere in piedi una campagna elettorale vincente».
Di solito gli ex presidenti non hanno un ruolo politico vero e proprio, «si limitano alla presenza a qualche cerimonia bipartisan, alla scrittura delle loro memorie e alle loro fondazioni», spiega il professor Pretelli ricordando che storicamente gli ex presidenti hanno dovuto lavorare «come Howard Taft che divenne il giudice della Corte suprema».
È una condizione che non riguarda solo gli ex presidenti americani. Proprio come Obama, Washington e Taft, anche nel resto del mondo chi lascia il governo deve reinventarsi in qualche modo, soprattutto nei sistemi presidenziali o semipresidenziali. In particolare per chi è ancora relativamente giovane.
Tony Blair aveva 54 anni quando ha lasciato il 10 di Downing Street nel giugno del 2007. Fin dall’inizio si è impegnato attivamente in altri campi: fino al maggio 2015 è stato inviato speciale per la pace in Medio Oriente del Quartetto Nazioni Unite, Unione europea, Stati Uniti, Russia. Con pochi risultati però: è stato criticato per la mancanza di effettivi miglioramenti nei negoziati tra Israele e Palestina e perché, si diceva, non avesse buoni rapporti con l’Autorità nazionale palestinese.
Ultimamente l’uomo della Terza via è intervenuto sui giornali per parlare dell’emergenza coronavirus, criticando il governo per alcune misure di distanziamento sociale considerate poco chiare.
È un discorso che si potrebbe ripetere anche per altri presidenti del passato, come Valéry Giscard d’Estaing, presidente francese dal 1974 al 1981. Ha chiuso il suo mandato a 55 anni, ma si è ritirato dalla vita politica solo nel 2004.
Dopo l’esperienza all’Eliseo è stato presidente del Consiglio regionale di Auvergne e presidente del partito Unione per la Democrazia Francese (Udf). Poi ha rinunciato ad altri incarichi politici per diventare diventare membro del Consiglio costituzionale, oltre a dedicarsi maggiormente alla passione per la scrittura – nel 2006 e nel 2009 ha pubblicato il saggio “Choisir” e il romanzo “La Princesse et le Président”.
Oggi il presidente cui si fa riferimento quando si parla di impegno dopo il mandato è Emmanuel Macron: se dovesse essere rieletto per un secondo mandato chiuderebbe la sua esperienza da presidente a soli 49 anni.
In un articolo pubblicato sul numero del 30 settembre 2019, il Time racconta tutti i suoi hobby e le passioni che in questi anni non riesce a coltivare come vorrebbe. «Macron dice di ritagliarsi sempre una o due ore al giorno – si legge – per la lettura. Poi le passioni per lo sport e la musica».
Immaginarlo dedicarsi a questi svaghi, dopo dieci anni vissuti a ritmi altissimi alla presidenza, non è difficile. Lui stesso, nell’intervista al Time dice: «Adoro la famiglia, gli amici, i libri. Sono pronto per una vita più tranquilla». Forse è solo difficile immaginare che possa star lontano dalla politica per molto tempo. Obama, ad esempio, non ci è riuscito.