La trama è semplice, ma il risultato è un capolavoro di confusione. O meglio, di complicatezza. “Da 5 Bloods – Come fratelli”, l’ultimo film del regista americano Spike Lee racconta la storia di quattro veterani afroamericani che, a 50 di distanza, tornano nella giunga del Vietnam dove hanno combattuto per recuperare il corpo del loro commilitone rimasto ucciso all’epoca.
Nel frattempo, sperano di riuscire a ritrovare anche un carico di lingotti d’oro, il pagamento segreto che la Cia aveva inviato alla popolazione dei Lahu. Cosa può andare storto?
Più o meno tutto.
Dietro all’apparente cameratismo, i quattro “blood” (così si chiamavano gli afroamericani al fronte tra di loro) – Melvin (Isiah Whitlock Jr.), Eddie (Norm Lewis), Otis (Clarke Peters) e Paul (Delroy Lindo) nascondono segreti e problemi.
Ci sono crisi post-traumatiche, figli che li seguono a loro insaputa, relazioni complicate e un senso di sfiducia generale. È quella manifestata da Paul, che negli anni è diventato un elettore di Donald Trump. «Ho votato per lui», ammette davanti a un tavolo. E subito si capisce che il gruppo non può resistere a lungo.
In tutto questo, c’è il lavoro di Spike Lee, che prende una trama pensata per un plotone di bianchi, il cui regista avrebbe dovuto essere Oliver Stone, e la ricuce addosso a una squadra di afroamericani.
Operazione fatta su più livelli, compreso quello della testimonianza: ricordare quanto fosse sproporzionata la loro presenza in Vietnam (il 32% dei soldati erano neri rispetto all’11% del totale della popolazione).
Quello che ne nasce è un enorme pastiche, in cui si ammucchiano generi, stili e temi. C’è la caccia al tesoro in stile western (non per niente si rifà a “Il tesoro della Sierra madre”, uno dei suoi preferiti) e il film di guerra (nei flashback è tuto “Apocalypse Now”, ma gli attori – scelta insolita – non vengono ringiovaniti, anche se avrebbero 50 anni in meno).
Quando saltano fuori i figli, scatta il confronto generazionale. Gli sprazzi comici da quarantenni nostalgici (genere ben noto in Italia, forse abusato) sembrano portare verso un alleggerimento della tensione. Il tutto in mezzo a mine, ricatti, ricordi, contestazioni e rivendicazioni.
Un affastellarsi di trame e sotto trame, richiami e allusioni che finisce per esplodere in faccia ai protagonisti. È un difetto? Per Le Monde sì, troppo barocco. Per il New York Times no, al contrario. Mostrare le contraddizioni è meglio che provare a risolverle in una definizione coerente. Anche perché come tutti i film di Spike Lee, il tema è politico.
I primi minuti, composti da documenti storici (la dichiarazione di Muhammad Alì in cui spiega perché non si vuole arruolare) danno il via a tutto. Ma anche la conclusione – con i cori di Black Lives Matter – oltre a essere prodigiosa per tempismo, si permette di dare una certezza: non ci sono certezze.
Il lento sfilacciarsi del gruppo, insieme al riemergere di un passato più complicato di quanto si volesse ricordare, provoca divisioni interne e polarizzazioni.
Se è vero che due dei quattro protagonisti diventano evanescenti, il confronto tra Otis e Paul – il trumpiano – riflette le ansie e le posizioni che si vedono oggi marciare sulle strade americane.
I quattro, forgiati dalla guerra e uniti dal ricordo erano – “come fratelli”, non di sangue ma di ideali. Quello che scoppia sono proprio questi ultimi, quando si capisce che ognuno – come gli Stati Uniti – è andato per la sua strada.