«Dobbiamo farli venire di qua i Cinquestelle, dobbiamo allargare il campo in chi condivide certi valori», disse Dario Franceschini il 13 gennaio al “conclave” dem di Contigliano. Il Covid era di là da venire, il capo delegazione Partito democratico al governo progettava l’alleanza strategica con i grillini, cioè un partito a vocazione populista, antieuropeista e intimamente illiberale, ben lungi dall’aver affrontato la questione della sua piena affidabilità democratica oltre che quello della competenza politica nel merito delle scelte di un paese moderno.
Altri tempi? Mica tanto. Infatti sempre il ministro della Cultura, un po’ l’architetto della linea politica del suo partito, il 30 maggio, già in fase 2 della guerra al virus, ribadiva che questa alleanza deve essere «permanente», cioè non un fatto tattico-congiunturale ma strategico-ideale, un quasi mescolarsi giallorosso (senza trattino, si sarebbe notato un tempo) nell’Italia quasi sorridente dell’avvocato Conte.
Cosa resta di questo svolazzo ardito nei cieli della strategia politica, oggi che nella gabbia grillina vola di tutto rendendo quantomeno problematico interrogarsi sulla loro esistenza in vita? Eppure i segni di un impazzimento della maionese cucinata nei sottoscala della Casaleggio Associati erano ben visibili da tempo, cose che a un politico di grande esperienza e fiuto come Franceschini non mancano certo.
Eppure nessuno, tanto meno lui, intona il de profundis di una linea che era solo un desiderio, come il “Tram” di Marlon Brando, e che invece all’incontrario va: ma al Nazareno non si cambia mai linea e quando lo si fa non lo si dice, vecchia scuola comunista e un pochino anche democristiana.
In attesa che “Dario” dica la sua, abbiamo chiesto lumi a un franceschiniano doc come Antonello Giacomelli, navigato costruttore di analisi politiche: «Bisogna sempre tener presente il realismo come principio guida. In questa fase, se parliamo di strategie realmente praticabili, non vedo progetti alternativi a quello di consolidare progressivamente un rapporto tra le forze che sostengono il governo e costruire un dialogo con le forze europeiste dell’opposizione», ci ha risposto. Evidentemente passando sopra il particolare di una forza mica tanto europeista, non solo contraria al Mes ma pure persino inseguita dalle presunte dazioni di denaro venezuelano.
Nessuno lo dice ad alta voce, sarebbe uno sgarbo, ma in tanti prevedono, e si augurano, una scissione che porti alla nascita di un Movimento cinque stelle “buono” guidato da Grillo e Conte, un bel partito alleato che porti in dote quel che manca e sempre mancherà al Partito democratico di Zingaretti, quel 15 e più per cento che serve a vincere le elezioni.
Ecco perché la domanda è anche un’altra. Immagina, il Partito democratico, di ricavare un utile dalla inevitabile crisi di consenso dei grillini? Perché può essere uno sbocco naturale, se il Movimento, domani o dopodomani, ci lasciasse le penne.
«Puntare sulla difficoltà dell’una o dell’altra forza di maggioranza per inseguire un punto in più nei sondaggi mi sembra una visione miope – dice Giacomelli – e riconquistare consenso dall’elettorato sedotto dal sovranismo è la sfida tra i partiti di maggioranza che serve al Paese. Questo non vuol dire che i dem o Italia Viva, i Cinquestelle o Leu siano o debbano essere sovrapponibili. Vuol dire però non smarrire la visione d’insieme del quadro politico».
Ma la domanda resta: dov’è finita la sapienza tattica della Ditta che fu? Perché oggettivamente il partito di Zingaretti e Franceschini si trova oggi impigliato in una selva di rovi che quotidianamente producono ferite su un corpo già prostrato, una situazione tutt’altro che smagliante che si riflette anche sui sondaggi (per la terza settimana di fila Swg dà il Partito democratico in flessione, ora al 19 per cento).
Il gran trambusto pentastellato rischia perciò di infittire il buio strategico del Pd, tanto è vero che Goffredo Bettini è ridotto a puntare tutto sulla “autorevolezza” di un comico, Beppe Grillo. Andiamo bene.
Pragmatico, dice Andrea Romano: «Il Partito democratico esercita una sorta di funzione maieutica sul Movimento cinque stelle, spingendolo ad assumere posizioni sempre più mature. E pur nella differenza che ci separa e ci separerà, confidiamo che la collaborazione di governo con il Pd spinga quel movimento a diventare sempre più un partito radicato nella realtà italiana e capace di contribuire alle riforme che servono al paese».
Pare di sognare, ma la linea non cambia di un millimetro. Resta il solito Matteo Orfini a vedere le cose per quelle che sono: «Non si costruisce un futuro di sinistra insieme a una forza che non è di sinistra. Faremmo bene a ripensare il Partito democratico invece di limitarci alla politica delle alleanze». Per ora però nulla cambia. Fino al prossimo scossone.