Secondo il report elaborato da The European House – Forum Ambrosetti, su dati Istat e Federalimentare e presentato a Bologna da Valerio De Molli, Managing Partner e Amministratore Delegato, il settore food and beverage è un asset fondamentale per la competitività del Paese: con 200 miliardi di fatturato di cui 44,6 di export. Gli occupati sono 1,4 milioni e 1,6 milioni le imprese. La spesa per i prodotti alimentari e le bevande – inclusa la ristorazione – è di 240 miliardi e segna un +1% rispetto al 2018.
Dove comprano gli italiani? Dall’indagine sui dati 2019 esce un dominio della grande distribuzione organizzata, che rappresenta il 76,6% del totale della spesa alimentare delle famiglie italiane. Solo l’11% sceglie invece negozi a libero servizio e tradizionali, con l’ecommerce che non arriva nemmeno all’1%, ma che nei primi mesi del 2020 e forzatamente durante i mesi di lockdown si è rafforzato, mentre il canale offline è cresciuto a marzo e nella prima metà di aprile, a fronte di un rallentamento dopo Pasqua e di una nuova ripresa dopo il 4 maggio, con crescite arrivate fino al +181%.
Ma nonostante questi dati positivi, anche questo settore ha subìto nei primi mesi del 2020 un impatto senza precedenti a causa dell’emergenza sanitaria Covid-19.
Il settore agroalimentare è il primo per valore aggiunto generato tra le “4A” del Made in Italy, il secondo Paese al mondo per quota del settore agroalimentare sul Pil (2,2%), preceduto solo dalla Spagna. Siamo anche il primo Paese al mondo per produzione di vino, che rappresenta prodotto agroalimentare più esportato all’estero, pari al 14% del totale, seguito dai prodotti lattiero caseari e da frutta e ortaggi trasformati. E l’Italia è il secondo Paese europeo per fatturato del settore agricolo, e il quarto per superficie dedicata all’agricoltura biologica.
Ma nonostante queste ottime posizioni, il settore agroalimentare italiano è quello che esporta meno in termini assoluti nel confronto con i peer europei e l’Italia si posiziona penultima per incidenza percentuale dell’export del settore sul totale delle esportazioni, con i primi 5 Paesi per destinazione delle esportazioni Food&Beverage italiane che assorbono oltre il 50% delle esportazioni: i nostri prodotti viaggiano verso Germania, Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Giappone, e guardando all’export pro-capite, la Svizzera si conferma il primo Paese di destinazione dei prodotti Food&Beverage italiani con 202 euro di spesa a persona. Ma in questa classifica c’è un grande assente, la Cina, che non figura tra i primi 15 Paesi in cui esportiamo, al contrario dei principali peer europei, dove la Cina rientra sempre nelle prime 10 destinazioni.
Eppure gli spazi e i modi ci sarebbero, e visti i numeri della Cina non sarebbe nemmeno così fatico raggiungere obiettivi significativi. Per raggiungere 50 miliardi di euro di esportazioni agroalimentari, sarebbe sufficiente aumentare di 3,8 euro le esportazioni pro-capite in Cina, che al momento assorbono un risibile 0,3 euro pro-capite.
Ma il problema da affrontare, al momento, è la ripresa. Da una emergenza sanitaria globale, il Covid-19 si è infatti trasformato in un’emergenza economica (e sociale) globale: la crisi è senza precedenti, Il Fondo Monetario Internazionale prevede la peggior crescita dell’economia globale negli ultimi 40 anni. È la prima volta dal disastro petrolifera del 1979 che la crisi coinvolge sia domanda che offerta.
Per quanto riguarda l’offerta, alle interruzioni delle attività produttive in più settori e in diversi Paesi del mondo, si sono aggiunti i rallentamenti delle supply chain. Mentre per la domanda i problemi sono stati la riduzione del reddito disponibile, la drastica riduzione di alcuni settori chiave come la ristorazione e il turismo, e un rallentamento degli investimenti privati.
L’Italia, con grandi disuguaglianze, una produzione industriale in perdita, un alto tasso di disoccupazione e esportazioni e consumi in calo, è arrivata già nel 2019 con un’economia affannata. Secondo le stime del Forum Ambrosetti, ad oggi si prevede per il 2020 una contrazione pari a -9,1% del PIL, a meno che non vengano implementate radicali azioni di politica economica, con una contrazione del PIL in peggioramento sul 2019 e il crollo maggiore di sempre sulle prospettive future. Il 2020 rischia di essere il quarto anno peggiore da oltre 150 anni.
Il settore Food&Beverage si è dimostrato più resiliente alle crisi negli ultimi 20 anni rispetto alla media della performance industriale nazionale: il lockdown ha fatto registrare una crescita dei consumi in tutti i comparti alimentari nel primo trimestre 2020, con uova, olio e derivati dei cereali in crescita quasi del 10%.
Ma per superare questa situazione, quali sono le risposte che le aziende metteranno in campo? Da un sondaggio realizzato e compreso sempre in questo report da Forum Ambrosetti, le imprese pensano di ripartire investendo sulla digitalizzazione delle attività, sulla sostenibilità ambientale, tracciabilità e sicurezza alimentare, innovazione del portafoglio prodotti e di processi produttivi. Anche se la propensione all’investimento non è generalizzata: le imprese più piccole dimostrano una minore propensione, limitando la competitività dell’intero comparto e potrebbe generare ricadute negative sulle performance di redditività e autonomia finanziaria.
La gestione della liquidità e i costi fissi per il rispetto delle disposizioni sanitarie, insieme alla contrazione dei consumi, sono le preoccupazioni più diffuse.
Sono tre le leve strategiche che le aziende ritengono indispensabili per sopperire al periodo e superare la situazione negativa: sostenibilità, innovazione e digitalizzazione. E cinque i punti sui quali serve un aiuto e un intervento concreto: favorire la sburocratizzazione, promuovere gli adeguati strumenti di supporto al reddito delle famiglie per far ripartire i consumi, implementare le giuste strategie per favorire la ripartenza del comparto Ho.re.ca. e dei consumi «fuori casa», uno dei più colpiti. Promuovere la crescita e il rafforzamento patrimoniale delle aziende del settore Food&Beverage e infine sostenere lo sviluppo sui mercati internazionali, anche attraverso la lotta al fenomeno dell’Italian Sounding che tanto penalizza l’autentico made in Italy.