Come provare a ripartireIl problema italiano non è fare le riforme, ma farle rispettare

Le misure messe in campo dall’Italia negli anni scorsi, dal mercato del lavoro alla previdenza e all’istruzione, non hanno prodotto i risultati sperati, un po’ per mancanza di una visione di lungo periodo, un po’ perché non si riconosce la legittimità politica degli avversari. Le conseguenze le vediamo oggi, in un paese in declino economico e con scarse prospettive

INA FASSBENDER / AFP

È difficile trovare, negli ultimi decenni, un qualunque rapporto di un’istituzione internazionale (Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Ocse) sulla situazione economica del nostro Paese che non contenga raccomandazioni alla classe politica di realizzare “riforme”.

Su un piano operativo, poi, le raccomandazioni spesso diventano condizioni: i provvedimenti europei a sostegno dei Paesi dell’Unione in difficoltà sono stati subordinati alla realizzazione di riforme per cambiare ciò che, sulla base di quelle analisi, si riteneva fosse di ostacolo a un buon funzionamento della nostra economia, e perciò almeno una causa importante della scarsa crescita, dell’elevata disoccupazione, del divario crescente tra Nord e Sud, della povertà in aumento, della scarsa propensione di investitori esteri a impegnare risorse in Italia.

Non fa eccezione il Mes in versione light, post covid-19, le cui risorse sono vincolate all’utilizzo per la lotta al virus, e non farà eccezione neppure l’innovativo “Next Generation EU fund” del quale l’Italia dovrebbe beneficiare in misura maggiore rispetto ad altri Paesi, anche con finanziamenti a fondo perduto ma sempre subordinatamente alla realizzazione di riforme.

Venticinque, trent’anni sono un periodo lungo e poiché quelli appena trascorsi coincidono sostanzialmente con un relativo declino economico dell’Italia – misurato in termini di minore crescita di lungo periodo del reddito per abitante rispetto alla media europea e a quella Ocse – è lecito domandarsi se, nonostante le raccomandazioni, il Paese abbia sempre fatto orecchie da mercante oppure se le riforme siano state fatte così malamente o così parzialmente da mostrarsi poi fallimentari o troppo poco efficaci per lasciare il segno.

Per rispondere in modo convincente a un simile quesito, ci vorrebbe ovviamente un’analisi approfondita, qui non fattibile. Eppure un qualche giudizio “indiziario” si può forse dare, almeno se ci si limita alle riforme prettamente economiche e di un certo rilievo (non a cambiamenti di minore portata della normativa, pur se in Italia c’è l’attitudine a chiamare riforma quasi ogni provvedimento legislativo).

Intanto, bisogna chiarirsi sulla natura delle riforme e sui motivi per i quali vanno fatte. E questi motivi sono essenzialmente “interni”. Si fanno le riforme per adattare l’economia e – più importante ancora – la società ai grandi cambiamenti che, ci piaccia o no, comunque avvengono. Con le riforme, dovremmo riuscire a raccogliere qualche frutto da questi cambiamenti anziché subirne soltanto svantaggi.

Quali sono queste riforme? Quelle del mondo del lavoro in risposta alla globalizzazione, alla rilocalizzazione geografica delle catene produttive, ai movimenti migratori, ai cambiamenti demografici; quelle del welfare, per creare un terreno di gioco più livellato e cercare di ridurre le diseguaglianze, dando risposte più efficaci ai rischi economici che le persone corrono nel corso della vita, rischi aumentati in Occidente in conseguenza della globalizzazione.

Si tratta delle riforme previdenziali in risposta all’invecchiamento della popolazione e alla necessità di mantenere la sostenibilità anche nei confronti delle generazioni future, superando la miopia di una politica che spesso guarda soltanto alle prossime elezioni; delle riforme della giustizia e della burocrazia per renderne più equa, celere ed efficiente l’azione e favorire, anche per questa via, gli investimenti; o della scuola, per migliorarne la rispondenza a un concetto ampio di formazione, a principi di merito ma anche alla necessità di inclusione, realizzando un difficile equilibrio tra obiettivi spesso contrapposti nel breve periodo.

Ebbene, pur con le limitazioni di area e di portata sopra indicate, un elenco certo non esaustivo e neppure definitivo indica che l’Italia ha realizzato una trentina di riforme, tra cui se ne possono annoverare cinque in ambito previdenziale, cinque in materia di lavoro, quattro in tema di istruzione e università, due in ambito sanitario, tre per migliorare il funzionamento della burocrazia, quattro in materia costituzionale/istituzionale; due per il rilancio dell’industria; tre o quattro sul fisco. Un arsenale non piccolo che, però, non ha nel complesso condotto ai risultati sperati, anzi ha talvolta portato a esiti opposti.

Il mercato del lavoro avrebbe dovuto essere “flessibilizzato” per contrastare la disoccupazione. Ma molte misure hanno finito per favorire la precarietà mentre il tasso di occupazione, in particolare di giovani e donne, rimane comparativamente basso.

Le politiche del lavoro sono tornate a essere prevalentemente passive (cioè fatte di assistenza per la perdita di reddito) piuttosto che attive (ossia orientate a favorire l’occupabilità e l’aumento dei posti di lavoro).

La previdenza rimane incanalata verso il completamento del metodo contributivo ma con un andamento zigzagante fatto di eccezioni alle regole generali, di battute d’arresto e di passi indietro (com’è il caso di quota 100), riecheggianti la vecchia, miope logica dei prepensionamenti per “fare spazio” ai giovani.

La scuola avrebbe dovuto essere completamente rinnovata (diventare “buona”) e migliorare notevolmente i propri risultati in termine di minori abbandoni, aumento medio degli anni di istruzione e della qualità dell’apprendimento, quest’ultima sempre più certificata da confronti internazionali che non ci onorano.

L’Università, che dovrebbe essere fucina di ricerca per dare fondamenta scientifiche all’analisi e alla soluzione dei problemi del Paese, non è mai diventata una vera priorità del Paese. I tempi della giustizia civile e dei pagamenti delle amministrazioni pubbliche ai propri fornitori rimangono scandalosamente lunghi. Gli investimenti delle imprese non hanno recuperato il livello precedente la crisi finanziaria del 2008. Il debito pubblico in rapporto al Pil rimane tra i più alti e, soprattutto, aumenterà fortemente in conseguenza dell’indebitamento complessivo causato dalle misure anti-covid.

Tante riforme, insomma, ma scarsi risultati.

Non ha funzionato, da noi, un modello positivo di governo quale quello tedesco: un esecutivo lungimirante (governo Schröder, socialdemocratico) fa le riforme ed è “punito” dagli elettori; un altro (Merkel, conservatore) viene eletto ma conferma quelle riforme, le porta a compimento, e ne raccoglie i benefici, reali per il Paese e politici per la stessa Merkel. E non ha funzionato, credo, per tre ragioni principali: in primo luogo, la mancanza di una visione strategica di medio lungo termine: la “miopia” alla quale si accennava sopra – che, oltre ai politici, sembra coinvolgere l’intera società italiana, portandola a rifiutare le riforme per una sorta di “paura dell’ignoto” e a concepire il cambiamento quasi solo come un ritorno al passato, come anche si può vedere dall’enfasi delle misure economiche contro il coronavirus, intese più come indennizzi che come incoraggiamenti a intraprendere nuove strade.

L’adozione di un percorso di crescita e di modernizzazione dell’economia e della società – sensibile alle istanze di maggiori opportunità per tutti e a minore diseguaglianza, proprio del riformismo liberaldemocratico – risulta perdente nella nostra cultura, anche per la migrazione all’estero di gran parte dei nostri giovani preparati e disposti rischiare che di fatto ci toglie gli elementi più dinamici sui quali contare e mortifica quelli che, pur molto bravi, sono costretti a restare.

La seconda ragione è la mancanza di condivisione o, peggio, di legittimazione delle scelte effettuate dagli avversari politici, per cui, maggioranze di un certo colore politico si propongono quasi sempre, e quasi come un “dovere”, di cancellare ciò che di innovativo si è cominciato a introdurre da parte di un precedente governo; ogni volta, pertanto, sembra di dover ricominciare daccapo.

Terza ragione: il non riconoscimento popolare delle ragioni delle riforme e, anzi, la convinzione diffusa che le riforme siano fatte a beneficio dell’estero, della “grande finanza” e così via, e comportino sempre e solo sacrifici e non anche benefici, visto l’inevitabile sfasamento temporale tra gli uni e gli altri.

Se questa lettura è corretta ne discende una visione poco rassicurante per la rinascita post coronavirus. È bene ripetere quanto detto sopra: le politiche adottate fin qui dal governo in termini di tamponamento per la mancanza di liquidità, sia per le famiglie sia per le imprese, sono certo giustificate dall’emergenza ma non contengono alcuna solida visione del futuro. A meno di prendere sul serio l’affermazione di Conte quando afferma che l’agenda del governatore di Bankitalia coincide con la sua. Se ciò rispondesse a verità, e non fosse l’ennesimo “accomodamento” di chi ci governa, il nostro futuro sarebbe certo meno oscuro.

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