«When the looting starts, the shooting starts», cioè, quando inizieranno i saccheggi cominceremo a sparare. Questo è quel che ha scritto Donald Trump su Twitter aggiungendo benzina al fuoco delle proteste esplose in tutto il paese dopo che a Minneapolis un nero disarmato è morto mentre veniva tenuto fermo con un ginocchio sul petto per oltre 8 minuti da un poliziotto.
Un post che Twitter ha segnalato come violazione delle proprie politiche sull’esaltazione della violenza in base al contesto storico della frase, al suo legame con episodi violenti e al rischio di ispirare una simile azione.
Infatti, sembra che l’origine della frase si debba far risalire a una conferenza stampa del 1967 tenuta da un capo della polizia di Miami a lungo accusato di usare tattiche razziste nei quartieri neri.
Ma non è tanto sui fatti di cronaca che voglio soffermarmi, i fatti di cronaca sono sotto gli occhi di tutti e ciascuno li vive, li elabora e li classifica in base alle proprie sensibilità e coscienza. Ciò su cui mi voglio soffermare è piuttosto l’uso delle parole.
Ludwig Wittgeinstein diceva che i confini del mio linguaggio sono i confini del mio mondo, e siccome è proprio il linguaggio il codice primario di questa nostra epoca diventa lampante il rischio e la potenzialità che esso possa prontamente trasformarsi da terreno di un gioco dialettico propositivo, positivo e evolutivo a campo di una sanguinosa battaglia involutiva dove, ahimè, gli sconfitti possiamo solo essere noi stessi, come individui, come società e come umanità intera.
Dunque, non è forse il caso di chiederci quali siano i confini che quel tipo di tweet va tracciando nel mondo? E ancora, sono davvero confini protettivi, condivisibili e convenienti per tutti?
Il caso Minneapolis ci ha messo di fronte alla drastica trasformazione di una città che fino a un attimo prima era considerata progressista, tranquilla, sotto la guida di un sindaco giovane e di sinistra e con un nero a capo della polizia, e un attimo dopo ha mostrato viscere contorte dal livore, dalla rabbia e dall’odio razziale.
Ma ciò che quel tipo di tweet e quel tipo di narrazione non dicono è che la stragrande maggioranza dei manifestanti non è violenta, cerca di unire la società, aiuta a pulire le strade interessate dalle proteste.
In sostanza mentre il mondo attraverso l’occhio delle telecamere si è concentrata su un manipolo di persone che saccheggiava alcuni negozi di quartiere, al centro della città, davanti ai palazzi delle istituzioni si svolgeva una manifestazione molto più numerosa e totalmente pacifica.
Tutta colpa della pandemia e della crisi che ha lasciato senza lavoro milioni di persone tra cui Floyd? Confini così definiti non sono forse la conseguenza di una crisi politica, culturale, sociale e morale che appartiene e tutti e ci riguarda tutti?
«Un essere diventa veramente morale soltanto quando in lui si risveglia la sensibilità a tutto ciò che è collettivo, universale, cosmico – diceva il filosofo Omraam Mikhaël Aïvanhov – questa facoltà gli permette non solo di entrare nell’anima e nel cuore degli altri, ma anche (se gli capita di farli soffrire) di provare egli stesso il dolore che infligge a quegli esseri, e di conseguenza egli cerca di riparare. Un giorno, gli esseri umani dovranno capire che tutto quello che fanno agli altri (il bene come il male) è anche a sé stessi che lo fanno. In apparenza, ogni essere è isolato, separato dagli altri, ma in realtà, sul piano spirituale, qualche cosa di lui vive in tutte le creature, in tutto l’Universo. Se questa coscienza universale si è risvegliata in voi, nel momento in cui agirete ai danni di qualcuno, sentirete che state facendo del male anche a voi stessi».
È questa secondo me la prospettiva, il vero tema, la vera questione su cui soffermarci e riflettere parlando di futuro.
Credo che nulla cambierà se non decidiamo di inserire un gesto creativo, un atto volontario di discontinuità nella nostra vita. Sopravvivrà chi si evolverà nella direzione inequivocabilmente già segnata dal futuro che ci sta correndo incontro.
Chi saprà coniugare nella propria vita la direttrice della propria unicità con quella della relazione. Chi, quindi, diventerà profondamente consapevole della forza dell’unità nella diversità.
Non più una differenziazione di presunte razze fondata sulla ricerca della supremazia di un colore della pelle, di un credo, di un partito, bensì una manifestazione di chi saprà meglio adattarsi al vero cambiamento che il mondo ci chiede: sentirsi unici ma parte integrante di un insieme che da noi dipende e da cui indissolubilmente noi stessi dipendiamo, e c’è un’unica soluzione possibile: riconnetterci al senso più profondo delle nostre vite che è quello di dare loro una direzione per riempirle di senso.
Allo stesso modo in questa epoca minata da incertezza, complessità e ambiguità, l’umanità intera deve trovare una direzione e può farlo con la bussola della gratitudine.