Primo flashback, Bologna, le assi d’un teatro fuori porta, 1988. Mi sono iscritta a un corso di recitazione perché sono fanatica di Vittorio Gassman nello stesso modo in cui non molti anni prima ero fanatica di Julio Iglesias.
Una delle insegnanti è stata una sua allieva, alla Bottega teatrale che in quegli anni lui dirige a Firenze. Si chiama Lucia, e tra le altre cose ha l’ingrato compito d’insegnarci dizione – nella città in cui si aprono tutte le “e” che vanno chiuse e viceversa.
Un giorno racconta che Gassman, per spiegare l’importanza della dizione, dice: «Se dici a una donna che è una vérgine, le stai dicendo che è vergine; se le dici che è una vèrgine, le stai dicendo che è una troia».
Ripeterò questo esempio allo sfinimento, sempre inascoltata, ad amici che nei decenni strascicheranno accenti romani, napoletani, lombardi, siciliani, bolognesi, e tutti mi guarderanno come mucca guarda treno, incapaci di sentire se una vocale sia chiusa o aperta, e intimamente convinti che sia una fisima mia, un po’ come se fossi di Scientology.
Secondo flashback, la cucina dei miei, una qualche sera d’inizio anni Ottanta, in tv passa “La terrazza”. Ci sono quelle che vengono folgorate da un politico, da una rockstar, alcune persino da un prete. Quelle che vogliono fare la ballerina, la cuoca, l’astronauta.
Io sono direi alla fine delle scuole elementari, e vengo folgorata da quel monologo finale di Gassman, e amare e immedesimarsi per me sono la stessa cosa (anche se allora ancora non conosco questa mia patologia), fatto sta che per tutta la vita vorrò essere quella cosa lì: quello che alla fine della festa si alza, e sbotta che non se ne può più del dolente erudito, che i privilegiati depressi fanno persino più schifo dei privilegiati contenti, che io non vi voglio più vedere, mi fate schifo, voi siete il mio specchio, e quando gli chiedono di chi stia parlando risponde come rispondo io quando mi chiedono d’un articolo, d’un libro, d’un appunto, «Di me, di me, sto parlando di me». («Come si stava meglio quand’eravate tutti imbecilli», anche).
Terzo flashback, 1989, un cinema in via Mascarella, lo stesso in cui poche settimane prima ho visto “Palombella rossa”. Il film si chiama “Lo zio indegno”, e negli anni scoprirò d’averlo visto solo io. Giancarlo Giannini è il proprietario d’un’impresa di pulizie che scopre d’avere uno zio poeta maledetto. Gassman, appunto.
Tra i tentativi che fa per entrare nella sua vita, mentre lui è a un premio di poesia s’introduce in casa sua coi suoi lavoranti, e trasforma quel porcile (simile a tutte le mie case future) in un lindo e ordinato appartamentino. Quando Gassman rientra a Roma, e s’avvede che i libri sono stati sistemati in ordine alfabetico, dà fuoco all’appartamento.
Quarto flashback. Teatro Duse, Bologna, 1986. Gassman è in scena con un Pasolini, e io sono lì, perché ancora non so cosa penso di Pasolini e perché comunque è Gassman, lo guarderei anche se portasse in scena Romeo e Giulietta nel ruolo della nutrice (oddio, che ipotesi magnifica, a pensarci).
All’intervallo una maschera mi sorride e io, tredicenne senza lobi frontali, le dico: Non è un uomo bellissimo? La sventurata risponde: «Beh, è un bel nonno».
Quinto flashback, ieri. «Ma è una vita che rompi i coglioni a tutti con Gassman, e poi invece di scrivere del ventennale della morte vai a sfruculiare Calenda?» «Ma non ho niente da dire, e poi ormai è tardi» «Ma come non hai niente da dire, al massimo racconti quella di vèrgine, sarà solo la duecentesima volta, c’è uno in Lapponia che ancora non te l’ha sentita dire».
Sesto flashback, i pomeriggi delle elementari passati, invece che a studiare i confini dell’Umbria, a leggere “Un grande avvenire dietro le spalle”, e fin lì è facile, la più bella autobiografia della letteratura italiana, e poi di recente Francesco Piccolo ha scritto che era anche il suo libro preferito, quindi ha il bollino Chiquita dei classici di formazione.
Ma io ho ancora una copia sottolineata furiosamente del suo “Memorie del sottoscala”, romanzo a chiave velleitario già dal titolo, e pieno di grandi verità quali l’imbecillità di chi chiede di che anno sia un certo quadro («Cosa contano gli anni, scemo, chiedi semmai di che giorno, di che umore, di qual grado di disperazione»).
Settimo flashback, un qualunque giorno di questo secolo sui social, un qualunque scemo che usa «democratico» per dire tutto tranne che quel che vuol dire, anche solo che non puoi bloccarlo su Twitter per non leggere più le sue scemenze, e l’impossibilità di non pensare ad Aldo Fabrizi che in “C’eravamo tanti amati” ricatta Gassman in fuga e lo costringe a fermarsi con «Sei democratico?!».
Ottavo flashback, estate 2012, sto scrivendo un libro sull’adulterio e guardo tutto quel che trovo degli attori italiani negli anni in cui avevano tutti sette mogli.
In un documentario su Gassman ci sono lui e Scola su un qualche set, seduti su dei gradini, forse è una troupe di tg che li intervista, vado a memoria perché non sono riuscita a ritrovarlo, e Scola dice che la gente quando gli parla di “C’eravamo tanto amati” gli dice «c’è Antonio l’infermiere, c’è Nicola il giornalista, e poi c’è Gassman». Gassman ride sornione e lusingato, e Scola gli fa: Guarda che non è un complimento – ma lo sa pure lui che lo è.
Nono flashback: estate 2016. Lavoro a un documentario su Monica Vitti che poi non si farà. Le ultime immagini pubbliche che si trovano di lei sono quelle al funerale di Gassman, nel 2000.
Passo settimane a interrogarmi, ma niente, della morte di Gassman non mi ricordo niente. È perché avevo 27 anni e non mi ero ancora resa conto che la gente morisse? Come diamine è possibile che non mi ricordi la morte del più rilevante poster della mia infanzia, dell’uomo che volevo essere?
Decimo flashback: 2017, un teatro minuscolo in un seminterrato bolognese, di fianco al parrucchiere dal quale andavo a farmi la piega alle medie.
Emanuele Salce, il figlio di Luciano e dell’ultima moglie di Vittorio G, Diletta D’Andrea, ha messo su uno spettacolo in cui rievoca i funerali dei suoi due padri (rievoca, memorie, in un seminterrato, sottoscala: mi sono sempre dimenticata di chiedergli se fosse un caso).
Quando fa Vittorio, ha la sua stessa identica voce. Quando fa Vittorio che lo sgrida perché ha una dizione imperfetta e «a casa nostra dovevano sentirsi le finali», vien voglia di consolarlo.
Quando imita Gabriele Lavia che fa il fenomeno alla veglia di Vittorio, ribalto le sedie davanti a me dal ridere. (Prima o poi lo rifarà, quello spettacolo, s’intitola “Mumble mumble”, dovreste proprio vederlo, e per un qualunque prossimo anniversario un qualunque produttore furbo dovrebbe comprarlo e trasmetterlo, in tv o in una di quelle diavolerie moderne).
Undicesimo flashback: il coccolone che mi prende ogni volta che qualcuno scrive che “Il sorpasso” doveva farlo Alberto Sordi, simile a quello che mi prende quando vedo il provino di Bette Davis per Rossella O’Hara, l’idea che saremmo un paese forse migliore se Bruno Cortona non fosse stato quel figo assoluto di Gassman, quel cialtrone aspirazionale, ma chi se ne frega d’essere un paese migliore, vuoi mettere avere Gassman che inconsapevole rimorchia la figlia a Castiglioncello, in anni in cui potevi montare una scena del genere senza preoccuparti dei cancelletti che t’avrebbero dato dell’apologeta dell’incesto?
(Quell’altro sarebbe stato un film più aderente all’incipit del libro, «Rossella O’Hara non era bella», sì, ma chissenefrega della filologia quando puoi avere gli zigomi di Vivien Leigh a ogni «perdindirindina»).
Dodicesimo flashback, qualche mese fa. Vago per Youtube alla ricerca d’immagini gassmaniane, e trovo un’intervista fattagli da Biagi. Manda delle immagini, e a un certo punto c’è Gassman che arringa una folla, chissà dove chissà quando, e dice quella di vèrgine. Quindi Lucia diceva la verità. Quindi, oltre a tutto il resto, era anche della razza più rara: quelli che non rendono necessario abbellire gli aneddoti che li riguardano.