Nell’Italia giacobina di questo triste ventennio si erigono le ghigliottine per tagliare la testa dei pochi imprenditori che abbiano espresso il meglio negli ultimi cinquant’anni in questo Paese e si innalzano invece gli obelischi di un neo statalismo a cui lavorano glabri uomini in grigio.
Non si vuole qui entrare nel merito delle responsabilità penali che la società Atlantia controllata dalla Holding Edizione della famiglia Benetton, ha avuto nella mancata manutenzione del ponte Morandi fino al tragico epilogo in cui perirono due anni fa 43 persone. Non è compito dei giornalisti né dei politici, per quanto molti degli uni e degli altri sembrino animati da uno spirito forcaiolo senza precedenti nella storia del Paese e si siano già sostituiti, de facto, alla Giustizia.
Corre invece l’obbligo di raccontare come la palese volontà di distruggere la dinastia di Ponzano Veneto sia un poderoso attacco ideologico ad uno dei simboli del secondo miracolo italiano, fondato sulla libera diffusione della piccola e media impresa, in alcuni casi diventata mondiale come accaduto per i Benetton.
Ricordo bene gli anni’70-’80 in Veneto. La regione era governata dal “doge” Carlo Bernini nato a Bondeno nel ferrarese ma cresciuto a Treviso di cui sarebbe stato successivamente potentissimo Presidente della Provincia. Sino al 1991 stette saldamente in groppa alla balena bianca, insieme al rodigino Antonio Bisaglia e al vicentino Mariano Rumor, trionfante nella anodina mediocrità democristiana di una regione culturalmente ed economicamente più indietro rispetto a Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna, ma che, da terra di emigranti, stava per diventare la locomotiva del Nordest.
Per conto dell’Istituto di credito di diritto pubblico – che in quegli anni aveva aperto nuove filiali in tutta la regione, oltre alla storica sede di Venezia – curavo i rapporti finanziari gestiti da Gilberto Benetton, fratello del più noto Luciano che ebbi spesso occasione di incontrare anche a Ponzano Veneto nella secentesca Villa Minnelli, sede di Fabrica, inedito centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton Group, così descritta dalla Comunicazione aziendale: «La capacità di radicamento attivo di Benetton Group nel mondo e nella società, si esprime anche attraverso Fabrica, la cui sfida è quella dell’innovazione e dell’internazionalità: un modo per coniugare cultura e industria attraverso una comunicazione che non si affida più soltanto alle forme pubblicitarie tradizionali, ma si propone anche di veicolare l’“intelligenza” dell’impresa attraverso diverse forme espressive».
Anima del Centro era indubbiamente Oliviero Toscani che con le proprie fotografie pubblicitarie aveva lanciato nel mondo della moda, fino ad allora abbastanza tradizionale e modellato sullo stile sobrio dei conti Marzotto di Valdagno, provocazioni estreme e dissacranti che in molti ricorderanno.
In una regione ultraconservatrice e di stretta osservanza cattolica, i manifesti di United Colours esibivano effusioni tra suore e sacerdoti, mostravano i volti piagati dei malati di Aids, scoprivano le braccia straziate dei tossicodipendenti, alternavano in vividi caleidoscopi le carnagioni di tutti gli abitanti del Pianeta.
Un miracolo di comunicazione, non inferiore alla rivoluzione gestionale che il Modello Benetton, oggi tra i più studiati nelle Scuole di Economia di tutto il mondo, aveva introdotto nella produzione a façon, la lavorazione di indumenti in serie su un modello campione affidata a micro aziende familiari, nella governace innovativa, nel management di dirigenti e i dipendenti, nel costante rapporto tra moda e cultura improntato all’apertura del settore ai grandi temi di una società in forte cambiamento.
Al tradizionale conseguimento del profitto si aggiungeva ora il tema della generazione del valore percepito dal cliente che andava oltre il mero acquisto di prodotti dal prezzo, peraltro accessibile, tipico del prêt-à–porter di marca.
Le migliaia di piccole e medie aziende ormai emigrate ad Est, le cui sedi deserte fiancheggiano tutte le strade del Veneto, furono figlie di quel modello, esportato anche in altri settori produttivi e in larga parte del mondo. Ricordo perfettamente come l’aspirazione di ogni addetto assunto in una grande azienda fosse quella di imparare rapidamente il mestiere, acquistare a rate una macchina operatrice e mettersi in proprio prima possibile.
Alla corte di Villa Minnelli si presentavano designer di tutto il mondo, personaggi del mondo del cinema e dell’intrattenimento, intellettuali ed artisti in ogni campo, noti e meno noti, in cerca di una photo opportunity che li ritraesse insieme al Luciano nazionale, famoso in principio ben più del grande Pavarotti suo omonimo, abbigliato con lane o cotoni dai colori inediti e ancora più arditi di quelli con i quali Ottavio e Rosetta Missoni avevano conquistato Milano sin dagli anni ’60.
La visione del Gruppo Benetton era ambiziosa tanto quanto appare oggi quella del perugino Brunello Cucinelli, lo stilista del cashmere di alta gamma che alterna filosofia e moda nel borgo dorato di Solomeo, nuova Città del Sole di cui è principe e sacerdote ma che non ha certo l’impatto sul costume popolare che hanno caratterizzato invece le creazioni e lo stile di vita proposti da Luciano Benetton.
La sua breve avventura tra le fila del Partito Repubblicano si concluse con la fine della Prima repubblica e fu, a mio avviso, luogo di contagio con le commistioni che legano politica e grande impresa nella costruzione e gestione in concessione di grandi infrastrutture pubbliche.
Forse Luciano avrebbe fatto meglio a percorrere le strade della Marca Trevigiana ascoltando il grande poeta di quella terra, Andrea Zanzotto, di cui Eugenio Montale ebbe a scrivere sul Corriere della Sera del 25 marzo 1955: «Zanzotto non descrive, circoscrive, avvolge, prende, poi lascia. Non è proprio che cerchi se stesso e nemmeno che tenti di fuggire alla sua realtà; è piuttosto che la sua mobilità è insieme fisica e metafisica, e che l’inserimento del poeta nel mondo resta altamente problematico e non è nemmeno desiderato[…] È una poesia coltissima, la sua, un vero tuffo in quella pre-espressione che precede la parola articolata e che poi si accontenta di sinonimi in filastrocca, di parole che si raggruppano per sole affinità foniche, di balbettamenti, interiezioni e soprattutto iterazioni. È un poeta percussivo ma non rumoroso: il suo metronomo è forse il batticuore[…] Una poesia inventariale che suggestiona potentemente e agisce come una droga sull’intelletto giudicante del lettore».
Un’ombra de vin e qualche cicchetto in compagnia di cotanto maestro di quella semplicità che pure in origine gli era stata familiare, gli avrebbero evitato i tanti guai iniziati con l’avventura di Autogrill e che sembra ora finire sotto le macerie del ponte che scavalcava fino a due anni fa il torrente Polcevera.
Ma tant’è. Faber est suae quisque fortunae, secondo Sallustio. Ed essere artefici del proprio destino vale per tutti gli uomini attraverso le scelte che essi operano come individui ed anche come imprenditori.
Mentre oggi assistiamo increduli alla sostituzione del venture capital con il denaro dei depositi postali di lavoratori e pensionati, finora mediocremente gestiti, ma comunque custoditi con prudenza da Cassa Depositi e Prestiti, con la vaga promessa – salvo intese ovviamente – di un futuro azionariato popolare, non possiamo non essere preoccupati da un ormai palese intento di progressiva nazionalizzazione della grande impresa italiana, chiedendoci quale sarà la prossima su cui cadrà la lama ricurva di novelli rivoluzionari senza passato né futuro.
Viviamo tempi pericolosi in cui un terribile evento che ha scosso tutta la comunità nazionale sta servendo come casus belli per inoculare lentamente il nuovo veleno che anestetizza la spinta imprenditiva, marginalizzandone la libertà di esercizio e contro il quale non vi è antidoto.
Il primo populista europeo, Jean Paul Marat, medico e giornalista che amava definirsi “amico del popolo” come il titolo del giornale che fondò, era solito dire ai propri accoliti: «La libertà non fa per noi: siamo troppo ignoranti, boriosi, presuntuosi, codardi, vili e corrotti, siamo troppo legati ai piaceri e all’ozio, siamo schiavi della fortuna a tal punto da non conoscere affatto il prezzo della libertà». La libertà, per Marat, doveva essere illimitata solo per “i veri amici della patria”.
Nel Supplément de l’Offrande à la patrie scrisse: «gli interessi delle compagnie, dei corpi, degli ordini privilegiati sono inconciliabili con gli interessi del popolo […] quegli uomini apatici, che chiamano se stessi uomini ragionevoli […] insensibili alla vista delle pubbliche calamità, contemplano con occhi asciutti le sofferenze degli oppressi […] e non aprono la bocca che per parlare di pazienza e di moderazione».
Inviò al patibolo migliaia di cittadini che lo avevano portato all’apice della Rivoluzione, sostenendo che «I capitalisti, gli aggiotatori, i monopolisti, i mercanti di lusso, i legulei, gli ex-nobili, sono tutti sostenitori del vecchio regime […] non dobbiamo trovare strano che il popolo, spinto dalla disperazione, si faccia giustizia da solo […] il saccheggio di qualche magazzino alle cui porte saranno appesi gli accaparratori metterà fine alle malversazioni».
Finì pugnalato da Charlotte Corday il 13 luglio 1793, a soli cinquant’anni, gli ultimi dei quali immerso in una speciale vasca da bagno, a purgare il corpo, ma non l’anima, da una malattia della pelle che lo affliggeva. Durante la cerimonia funebre furono letti diversi discorsi celebrativi, tra cui uno scritto per l’occasione dal marchese de Sade, il famoso scrittore libertino.
Il pittore Jacques Louis David ne dipinse il celebre ritratto. Presto, però, secondo la versione raccolta da Victor Hugo, sul cadavere di Marat si esercitò la vendetta dei muscadins, la jeunesse dorée della capitale, che avrebbero gettato i suoi resti nelle fogne di Parigi. Né miglior fine ebbero l’anno successivo Danton, Maximilien Robespierre, Louis Saint Just e George Couthon che aveva dichiarato in passato alla Convenzione «Non si tratta di punire i nemici della patria, quanto di annientarli».
E fu il Terrore, il bagno di sangue che trasformò una rivoluzione borghese in un delirio proletario e, per la prima volta nella storia, ideologico. Tristi ammonimenti per coloro che si illudono che il proprio potere possa diventare “etico” ed eterno pur attraverso accurate metamorfosi. Tale errato convincimento è stato sempre all’origine di incalcolabili danni proprio nei confronti di coloro che, incapaci di reagire, li seguono adoranti, illudendosi di condividere il riflesso del fascino tragico che li avvolge.