L’idea che l’onda lunga populista partita dal referendum sulla Brexit e dall’elezione di Donald Trump rappresentasse una minaccia per i capisaldi della democrazia liberale non è una novità, tantomeno in Italia, dove nel ramo possiamo a buon diritto considerarci dei precursori. Ma gli ultimi sviluppi del dibattito, tanto da noi quanto negli Stati Uniti, farebbero pensare che il fenomeno, dal punto di vista culturale e sociale prima ancora che politico, sia andato molto più avanti del previsto. Al punto da poterne concludere che i sostenitori dello Stato di diritto siano ormai una minoranza, direi anche un’esigua minoranza, in Italia e nel mondo. A destra come a sinistra.
Nel suo articolo sul New York Times di martedì, ad esempio, Ross Douthat ha scritto che liberal e centristi allarmati dal fanatismo (di sinistra) dei fautori della cancel culture hanno bisogno di controargomenti che non poggino semplicemente sui principi della libertà di espressione. Perché a condurla su questo terreno il massimo che possono ottenere è di «vedere le proprie idee cancellate per ultime». E pertanto, se vogliono avere qualche speranza di vincere, devono combattere la battaglia «sulla sostanza» e non solo sui principi.
È una strategia che molti di fatto hanno già adottato, forse persino inconsciamente. A proposito di tutt’altro argomento – l’operazione Autostrade – ieri Carlo Cottarelli, su Repubblica, esprimeva così i suoi dubbi: «Chi vorrà trattare con lo Stato italiano in futuro di fronte a questo comportamento? Che implicazioni ci saranno per gli investimenti privati in Italia, anche stranieri? E per quel concetto, forse ormai desueto, dello “Stato di diritto”?».
Anche solo evocare il tema dello Stato di diritto, come si vede, induce un riflesso difensivo (come a dire: e scusatemi se insisto con questa roba che non interessa più a nessuno).
Gli esempi, per quanto riguarda l’Italia, si potrebbero moltiplicare facilmente – la cronaca politica ne offre una mezza dozzina al giorno – ma ne bastano due. Oltre al caso Autostrade, appena citato, la questione libica, su cui c’è stato ieri alla Camera un voto a larghissima maggioranza, naturalmente in favore del rifinanziamento della cosiddetta guardia costiera.
Bastano e avanzano questi due esempi perché in entrambi i casi – tanto nei confronti di una delle più ricche e affermate famiglie del capitalismo italiano quanto nei confronti degli ultimissimi della Terra in fuga dai lager e dalle torture – la stragrande maggioranza dei partiti, dei giornalisti e degli opinionisti ha mantenuto un atteggiamento perfettamente analogo. E cioè che le regole non esistono, esistono solo le eccezioni.
Il fatto che al lettore di sinistra i due esempi possano apparire disparati, per non dire opposti, è solo un’ulteriore conferma della mia tesi, nonché il motivo per cui li ho scelti. La democrazia liberale si regge sul fatto che la legge è uguale per tutti e che nemmeno il governo (soprattutto il governo) ha la facoltà di piegarla a proprio piacimento, per nessun motivo, fosse anche un ottimo motivo. È la ragione per cui vige la separazione dei poteri.
I processi di piazza e lo scoperto tentativo di piegare norme e principi al proprio tornaconto politico, che si indirizzino contro i Benetton o contro l’ultimo dei migranti sotto accusa per il più odioso dei reati, dovrebbero essere messi al bando, sempre e comunque. Sono diventati invece la norma, e anche sulla stampa liberale e moderata se ne discute come se tutto questo fosse normale.
E lo stesso vale per i più elementari principi di tutela dei diritti umani, come mostra il fatto che i decreti sicurezza siano ancora lì, e il fatto che si continuino a chiudere i porti e a tenere i migranti per giorni in ostaggio dei sondaggi, e il fatto che giusto ieri una larghissima maggioranza parlamentare abbia rifinanziato i libici senza fare una piega.
Quella maggioranza, che va da Fratelli d’Italia al Partito democratico (con le pochissime e meritorie eccezioni di coloro che ieri hanno votato contro), rappresenta di fatto, almeno dalle elezioni del 2018, la grande maggioranza illiberale del nostro paese.
In uno dei suoi ultimi libri Francis Fukuyama lamentava il fatto che, da quando aveva pubblicato il suo famoso saggio sulla «Fine della storia», ormai ben tre decenni or sono, praticamente ogni giorno, di fronte a qualsiasi novità, ci fosse sempre qualcuno pronto a rilanciarla come prova che la storia non è finita e a chiedergliene conto. Come tutti i tic intellettuali, in effetti, anche questo è diventato stucchevole.
Mi sembra però significativo il fatto che la sua tesi – l’idea che i principi fondamentali della democrazia liberale rappresentassero ormai un punto di riferimento e un modello per il mondo intero – rischi di rovesciarsi. Intendo dire che se oggi un epigono di Fukuyama dovesse scrivere nuovamente un libro intitolato «Fine della storia», è probabile che la sua conclusione, a proposito del punto di arrivo della civiltà occidentale, sarebbe diametralmente opposta.
Se mai qualcuno finisse per scriverla sul serio, auguriamoci che la previsione si dimostri pure altrettanto sbagliata.