Era inevitabile che la tempesta che ha investito la magistratura fosse l’occasione per regolare i conti in sospeso tra politica e toghe, compreso il più grosso di tutti: il caso giudiziario di Silvio Berlusconi.
Il fondatore e leader indiscusso della destra di governo della Seconda Repubblica alla fine è stato sconfitto e piegato dalla magistratura. Sia pure per una “robetta”: una frode fiscale da 7 milioni di euro (368 complessivi secondo l’accusa sostenuta dal Fatto, che conteggia pure le prescrizioni ritenute equivalenti a condanne definitive).
Ma per quella “robetta” la mano fu pesante: tre anni e otto mesi, la tagliola della legge Severino applicata senza pietà, decadenza dal seggio senatoriale e qualche mese di servizio sociale in un ospizio per anziani.
Berlusconi ai servizi sociali era il trionfo di una tenace “caccia all’uomo” durata anni e il compimento di un destino segnato sin dal momento dell’avviso di garanzia notificato nel corso di un evento internazionale sulla giustizia a Napoli nel ‘94. Una beffa e alla fine l’umiliazione.
Fu quello il momento in cui la parabola del potere giudiziario conobbe l’acme della potenza, la prova provata che ricchezza e forza politica nulla potevano di fronte alla massa d’urto del potere giudiziario.
Oggi la vicenda del magistrato Luca Palamara, secondo Piero Sansonetti e i supporter assortiti di Berlusconi e della destra, consentirebbe una rilettura di quella rovinosa caduta come frutto di cospirazione, col Cavaliere divenuto nel frattempo icona dei moderati riformisti.
E dunque come in una seduta spiritica modello “Gradoli” si evoca la testimonianza registrata del defunto magistrato Amedeo Franco che scrisse e firmò 208 pagine di fitte motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione traboccanti di irridente demolizione delle tesi difensive avanzate da un nutritissimo e prestigioso collegio difensivo.
Franco, idealmente in ginocchio di fronte all’imputato che fece cacciare dal Parlamento chiede quasi perdono, si giustifica con argomenti che ricordano da vicino le scuse accampate dagli avvocati sconfitti coi propri clienti (era tutto deciso «dall’alto», la Corte era un «plotone di esecuzione», una «decisione sbagliata», ma a differenza di un difensore scornacchiato, la sentenza lui l’aveva sottoscritta e diligentemente redatta).
Sulla “confessione postuma” di Franco, morto l’anno scorso, si costruisce l’ennesima pagina oscura della giustizia, in una notte istituzionale in cui ormai “tutte le vacche sono nere”.
Questa straordinaria intervista col morto a un imputato che ascolta il suo giudice – e rovesciando i ruoli lo ascolta e lo sollecita – è uno scenario a dir poco stupefacente su cui gli autori dello scoop disinvoltamente glissano. Ma rimane uno scenario che porta con sé interrogativi non secondari, con affaccio sul futuro prossimo del paese.
Una premessa necessaria: la vicenda giudiziaria culminata con la condanna si inseriva in una più vasta indagine iniziata oltre venti anni fa sul complesso delle società off shore riconducibili a Berlusconi.
Tra di esse la più nota era la All Iberian gestita dall’avvocato Mills e utilizzata, secondo la procura di Milano, per un finanziamento a Craxi. Sia Berlusconi che il leader socialista condannati in primo e secondo grado per finanziamento illecito furono salvati dalla prescrizione, uno smacco che spiega la particolare solerzia e sollecitudine della procura perché non ci fosse il bis in Cassazione con la vicenda in questione.
Tra le varie società ce n’era una maltese con cui risultavano alcune transazioni tra Fininvest e una società di un produttore statunitense, Frank Agrama. I pubblici ministeri milanesi ne avevano tratto un’accusa di frode fiscale a carico del leader di Forza Italia e di alcuni collaboratori oltre che dello stesso Agrama di cui avevano acquisito una sorta di involontaria ammissione di colpa scritta.
In una lettera indirizzata a dirigenti Fininvest, l’imprenditore americano aveva ammesso di essere un semplice intermediario per conto di Berlusconi, «senza alcun costo aggiuntivo» per la società milanese acquirente (come si può vedere a pagina 117 della sentenza della Cassazione).
Nella sostanza i giudici in tutti e tre i gradi di giudizio avevano ritenuto le transazioni con Agrama una finzione per costituire con false fatture dei fondi neri. Un particolare ritenuto determinante dai giudici di merito e dalla Cassazione.
Ma che non è stato considerato decisivo, invece, da alcune sentenze di giudici penali italiani che si erano interessati e che hanno ritenuto non provata la falsità delle varie operazioni, fino a una sentenza emessa in sede civile dal Tribunale di Milano a febbraio di quest’anno.
Quest’ultima pronuncia – sulla base della quale i legali di Berlusconi si sono rivolti alla Corte europea dei diritti umani lamentando di essere stati vittima di ingiusto processo – è indubbiamente un colpo di genio legale.
Visto che la sentenza penale negava la veridicità delle transazioni, e dunque degli esborsi di Fininvest ad Agrama, quest’ultimo avrebbe dovuto restituire alla società della famiglia Berlusconi le somme percepite che invece si assumevano versate.
Non sappiamo con quanto accanimento sia stata perseguita la richiesta di risarcimento ma certamente i legali di Berlusconi non sembrano essersi lamentati stavolta della giustizia italiana se hanno utilizzato la sentenza che riteneva infondate le loro richieste per chiedere la cancellazione della condanna penale alla Corte europea.
In un’altra atipica intervista al Foglio, Nicolò Ghedini, il legale che “in questi anni ha misurato in centimetri la sua distanza da Silvio Berlusconi” rivela che con il giudice Franco «le conversazioni sono state almeno tre e che sono avvenute nel 2014, pochi mesi dopo la sentenza, e che è stato lo stesso giudice Franco a proporsi tramite un altro magistrato».
Non spiega Ghedini se Franco avesse consapevolezza che gli incontri venissero registrati e nel caso se si fosse informato del perché e dell’uso della registrazione.
La voce non fa intuire la condizione “disperata” del dichiarante, ma emerge che Franco fosse convinto di un ordine dall’alto: da chi arrivasse, non lo dice.
Né Berlusconi né chi registra pongono una domanda assai ovvia quanto banale: come mai abbia redatto con tanto zelo e dedizione la sentenza senza chiedere di essere sostituito, come capita nei casi di dissenso tra relatore e collegio. Non spiega come mai ci fossero le firme di tutti i componenti del collegio, né glielo chiede alcuno degli interlocutori.
Fu un atto di arrogante imposizione o fu una sua richiesta di co-assunzione di responsabilità? E come mai in tal caso dopo aver ottenuto la condivisione degli altri membri si è affrettato a prenderne le distanze? Non lo sapremo mai dalla viva voce dell’interessato, defunto nel frattempo.
Quanto al complotto organizzato “dall’alto” la supposizione di Franco trova una smentita in un testimone insospettabile: il senatore di Forza Italia Gaetano Quagliarello, il quale nel libro “Sereno è” (ed. Rubbettino, 2017) ricorda di aver informato lui il presidente della Repubblica della improvvisa fissazione del processo addirittura il primo agosto. «Evidentemente nessuno, va da sé, lo aveva avvertito di quel che stava per accadere prima che la decisione della Suprema Corte fosse formalizzata».
Tutto questo, è “per la precisione”: il fatto che dopo sette anni salti fuori una registrazione di un magistrato che va a chiedere perdono al condannato accusando un collegio della Cassazione di aver commesso un reato non è una coincidenza, ma il frutto di un clima velenoso da regolamento dei conti.
Il punto è a chi alla fine gioverà questo: il Paese sembra sull’orlo di un abisso, quello di dover scegliere tra una destra sgangheratamente populista che avrà buon gioco a mettere sotto controllo una magistratura delegittimata, o peggio ancora di delegare a qualche uomo d’ordine le sue sorti.
Forse anche a un altro magistrato del “terzo tipo” che si presenti all’appuntamento con la storia offrendo la cura di quello che un giurista illustre definisce «autoritarismo ben indirizzato», per la salvezza della nazione, s’intende.