Forse questa è la volta buona. Sull’onda delle proteste per l’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte della polizia di Minneapolis, la questione razziale negli Stati Uniti è tornata a essere centrale, ha coinvolto le istituzioni promuovendo azioni di cambiamento (come l’iniziativa “Defund the Police”) ed è arrivata a lambire il mondo del cinema. Che forse non era ancora pronto.
Come racconta questo lungo articolo di Variety, fino a questo momento l’industria di Hollywood ha più che altro evitato di affrontare il tema in modo profondo. Anzi, ha spesso adottato atteggiamenti contraddittori, promosso azioni di facciata e cercato di mantenere lo status quo, con piccole concessioni e tante parole.
Un atteggiamento che non può più permettersi. Lo fa notare l’attrice Amber Riley, diventata celebre per aver impersonato Mercedes Jones nella serie “Glee”: è tempo, sostiene, che «finisca il silenzio dei neri nell’industria dell’intrattenimento. Occorre far sì che le strutture di potere si assumano la responsabilità di fronte agli atteggiamenti di oppressione sui neri. Bisogna parlare con coraggio di tutte le microaggressioni che si incontrano».
Il suo discorso non riguarda soltanto la vita sul set. Tutto il settore, spiega, è segnato da una mentalità patriarcale e “bianca” che rende impossibile, o molto limitato, ogni tipo di inclusione.
Le aperture ci sono, ma poche. Le iniziative fioccano, ma hanno scarso effetto. L’unica cosa che è cambiata è che da qualche settimana, come spiega Franklin Leonard, fondatore e Ceo di The Black List (rivista/sondaggio che ogni anno valuta le sceneggiature più apprezzate ma non ancora prodotte), «ci sono persone che ora lo dicono: “Forse dovremmo fare queste cose in modo diverso”». Sì, ma come?
Un modo sarebbe quello di favorire non soltanto l’ingresso nell’industria di persone di colore, ma anche la loro crescita e carriera. A Hollywood è molto difficile, per esempio, che autori neri riescano a salire oltre i gradini iniziali di una produzione. Se accedono, cominciano a lavorare ma non trovano né stabilità né possibilità di imporsi nell’ambiente.
Non si tratta impressioni aneddotiche. Lo dicono i numeri: il report sull’inclusione della Writers Guild of America mostra che il 51% degli autori è composto da bianchi. Una quota equa. Ma salendo di livello, si vede che l’80% dei produttori esecutivi e degli showrunner (figura che include autore e produttore) sono bianchi. I neri sono meno del 20%. Il sistema fa entrare, ma non fa salire.
Occorre una presa di coscienza, insomma, che punti a smantellare tutte le condizioni che permettono a chi beneficia dello status quo «di mantenere la sua posizione di controllo», spiega Ashley Nicole Black, attrice e autrice nera.
Quando lo si domanda, anche a gran voce, «si vede che sono tutti ben disposti. Ma alla fine succede che, per elaborare progetti anti-razzisti, si rivolgono sempre ad autori bianchi». Si pentono, ma si tengono la torta.
Ad accompagnare questo ripensamento e soprattutto per incanalarlo nei binari giusti, servono battaglie e progetti.
Ad esempio quella di Tara Duncan, nuova presidente di Freeform, rete televisiva via cavo posseduta dalla Disney, che ha promosso l’iniziativa “Who’s in the Room” un programma di guida per dirigenti i cui obiettivo e promuovere la diversità ai piani alti delle organizzazioni. L’80% dei suoi 23 allievi, di colore, è riuscito a ottenere posizioni di rilievo.
Oppure quella di John Boyega, attore inglese che ha interpretato il ruolo di Finn nella nuova trilogia di “Guerre Stellari”: ha protestato con un megafono durante una manifestazione di Black Lives Matter.
Subito diversi pesi massimi di Hollywood come Jordan Peele e Ava DuVernay si sono schierati a suo favore. È un segnale di incoraggiamento, un invito esteso a tutti ad alzare la voce, senza paura, per raccontare le proprie storie e denunciare le disparità di trattamento.
E ancora: il collettivo Black Artists for Freedom, che raccoglie 1000 artisti neri, ha chiesto agli studios più grandi «di mettere i soldi dove sono le loro bocche», cioè di dare seguito concreto alle facili promesse.
L’obiettivo sarebbe di destinare una spesa nella produzione di film proporzionata alla realtà demografica americana. «Di un miliardo di dollari, per esemio, almeno il 13% deve andare alla comunità afroamericana, per storie e progetti sul tema. E il 50% alle donne», spera Leonard. Sarebbe una svolta radicale, e per questo sembra molto distante.
Forse è più praticabile un’altra strada, quella indicata da Christy Haubegger, che si occupa dell’inclusione per Hbo e Warnermedia: quella dei database. «Ne sono una grande fan. Se si crea un sistema abbastanza ampio e inclusivo, nessun manager o dirigente potrà utilizzare la scusa classica del “non ne troviamo”, quando si parla di inserire figure provenienti da minoranze».
Non una lista («quelle le usano anche adesso»), ma «un sistema. L’unico modo per poter portare avanti un cambiamento reale e sostenibile» che sia anche trasparente.
Insomma, le iniziative ci sono. Il movimento c’è e si vede, con un livello di convinzione più alto. Resta ancora molto da fare, ma l’impressione è che dopo l’ondata del #MeToo, la polemica sugli Oscar troppo “bianchi”, e le nuove idee seguite alle manifestazioni di Black Lives Matter, qualcosa anche a Hollywood cambierà davvero.