Domenica 5 luglio si sono tenute le elezioni parlamentari in Croazia. Secondo i risultati parziali, ha vinto il partito di centro-destra Hdz, guidato dal premier uscente Andrej Plenković che avrebbe ottenuto 67 seggi (sei in più di quelli ottenuti nelle elezioni del 2016), mentre la coalizione di centro-sinitra Restart solo 41. Al terzo posto il Movimento per la patria di Miroslav Škoro. La scarsa affluenza alle urne è stato un segno ulteriore della crescente disaffezione dei croati dalla politica. La popolazione tende sempre di più a votare coi piedi, cioè a lasciare il paese: la Croazia è uno dei cinque paesi Ue dove il saldo migratorio è negativo (dati 2018).
Le elezioni di domenica sono arrivate a meno di una settimana dalla fine ufficiale della presidenza croata del Consiglio dei ministri dell’Unione europea, una première per l’ultimo Stato entrato nell’Ue (2013). Il semestre era stato immaginato da Zagabria come l’occasione per affermarsi a livello continentale come uno Stato “normale”, finalmente e definitivamente emancipatosi da quell’ingombrante etichetta balcanica che gli si era appiccicata addosso durante la guerra d’indipendenza dalla Jugoslavia. Secondo lo stereotipo balcanista, infatti, “balcanico” equivale ad arretratezza, tribalismo e violenza generalizzata.
Per la Croazia, sintetizza il professor Dejan Jović, della facoltà di Scienze politiche all’Università di Zagabria e candidato alle scorse elezioni europee per il Partito democratico indipendente serbo: «è fondamentale essere riconosciuto nel contesto dell’Ue. Il paese è stato monitorato e osservato per più di dieci anni. Presiedere il Consiglio sarebbe stata l’occasione per dire: ‘ora siamo anche i soggetti della politica europea, non più solo gli oggetti. Meritiamo di essere inclusi, compiutamente incorporati nei meccanismi decisionali dell’unione. Un traguardo così importante per un paese uscito da una guerra civile ancora fresca».
La presidenza che Zagabria aveva sognato per sette anni è stata tuttavia adombrata e monopolizzata da un fattore imprevedibile quanto micidiale: il coronavirus. Il rapido propagarsi della pandemia ha esautorato la nazione ospite, impedendole di dedicarsi – almeno mediaticamente – al perseguimento dei propri scopi.
Come spiega ancora Jović, «per il governo l’obiettivo principale di questa presidenza avrebbe dovuto essere dimostrare all’opinione pubblica e ai partner internazionali di essere capace di occupare una carica così prestigiosa. Il beneficio prevalente sarebbe arrivato in termini di immagine».
Un beneficio che non si sarebbe configurato solo come spot pubblicitario del governo finalizzato a raccogliere consensi in vista dell’imminente tornata elettorale, ma anche come antidoto alla crisi di autostima che affligge il paese, uno dei più poveri del club Ue, tra I fattori che contribuiscono ad alimentare gli ingenti flussi in uscita.
Dopo aver raggiunto tutti i principali obiettivi di politica estera individuati negli ultimi due decenni (indipendenza, riottenimento della piena integrità territoriale e adesione alle strutture euro-atlantiche), l’assenza di uno scopo chiaro e accattivante della propria strategia amplifica la sensazione di marginalità vissuta da molti croati, ritrovatisi in una provincia periferica dell’impero che tendono a vedere come ininfluente.
Questo protagonismo mancato è stato probabilmente il rammarico più grande di Zagabria, uno dei motivi per cui più maledice il coronavirus. A fronte del dilagare della crisi sanitaria, sono saltati molti protocolli diplomatici, tra cui quelli che le avrebbero assegnato il diritto a definire l’agenda e orientare i lavori. La pandemia ha imposto ai 27 di agire pragmaticamente e subito, riportando alla ribalta gli Stati più potenti e le loro iniziative – come nel caso del Recovery Fund propugnato da Germania e Francia.
«Un secondo obiettivo che ci si era prefissati era dimostrare di potersi finalmente meritare la tessera dell’area Schengen e dell’Eurozona», ricorda ancora Jović. Sull’entrata nell’area Schengen da tempo vige nel paese balcanico un consenso bipartisan, molto più compatto che nel caso dell’adozione della moneta unica al posto della kuna, la valuta attualmente in vigore. Anche questo obiettivo è stato sostanzialmente mancato, per gli stessi motivi ricordati sopra. La scarsa visibilità che Zagabria si è potuto ritagliare ha depotenziato la sua azione diplomatica.
Nonostante questo, proprio nell’ambito della discussione sulla riapertura dei confini dopo l’allentamento delle restrizioni applicate in molti paesi Ue, la Commissione per le libertà civili dell’Europarlamento ha comunque invitato il Consiglio e gli altri Stati ad ammettere Croazia, Bulgaria e Romania nell’area Schengen.
Un successo solo apparente, specie se si considera come la prospettiva di avere Sofia e Bucarest dentro l’area di libero movimento è al momento ben più remota di quella di avere Zagabria, avendo i due Stati dei Balcani orientali tanti più problemi in termini di network criminali. Abbinare i tre paesi serve dunque poco il gioco della Croazia, che da questo livellamento al ribasso ha tutto da perdere. La palla, come sempre, è però nel campo del Consiglio, dove potrebbe manifestarsi il frutto (inaspettato) di una meticolosa offensiva diplomatica forse condotta dietro le quinte dai funzionari croati durante questi sei mesi.
A latere, rimanendo in tema di frontiere, a frustrare ulteriormente l’ambizione di normalità della Croazia è intervenuta una minuziosa inchiesta del Guardian sui gravi abusi inflitti dalla polizia di confine ai migranti della rotta balcanica. Una macchia opaca su quella reputazione di Stato civile e liberale che la repubblica post-jugoslava ambisce a lustrare.
Il terzo obiettivo sarebbe stato il riavvio del processo di allargamento. Vista la prossimità storico-geografica, Zagabria avrebbe voluto presentarsi come facilitatore, almeno agli occhi di Macedonia del Nord e Albania, paesi candidati con cui non intrattiene alcuna disputa territoriale o identitaria, come invece nel caso di Serbia, Bosnia e Montenegro.
A fine marzo il Consiglio ha effettivamente approvato l’inizio dei colloqui con Skopje e Tirana. E, sebbene in versione remota, il meeting di Zagabria tra rappresentanti dell’Ue e rappresentanti dei sei Stati candidati ha prodotto qualche timido risultato positivo, perlomeno per il riconoscimento della competizione geopolitica in corso nella regione. Tuttavia, entrambi i risultati non sembrano ascrivibili all’azione croata, quando a un riassestamento di alcuni equilibri interni ai 27 su cui Zagabria non ha avuto voce in capitolo.
In generale, non era davvero previsto che ne avesse – specie su alcuni dossier infuocati che avrebbero dovuto essere affrontati lungo questo semestre, finalizzazione della Brexit in primis – ma era previsto che potesse fingere di averne. Il COVID19 ha squarciato brutalmente questa finzione.
E, dulcis in fundo, al virus la Croazia non deve recriminare solo i mancati introiti in termini di visibilità e prestigio. Stando alle stime della Commissione europea, l’impatto economico della pandemia sulla repubblica adriatica, che dipende dal turismo per quasi un quinto del proprio pil, sarà micidiale. Peggio di lei solo Italia, Spagna e Grecia.