Prepariamoci a un’ondata di distillati. Quello delle distillerie indipendenti e artigianali, anche in Italia, è un trend in crescita, come l’attenzione per la produzione nostrana. Lo racconta Claudio Riva, fondatore di Whiskey Club Italia e cofondatore del portale Distillerie.it, che raccoglie e mappa tutte le realtà italiane che in piccolo distillano gin, rum, grappe e non solo. «Il fenomeno esiste a tutti gli effetti, e sta seguendo quello che prima è successo nel mondo della birra, anche in Italia, e prima ancora negli Stati Uniti, dove l’esplosione è stata guidata dalla costa pacifica, per poi raggiungere New York e fare il grande salto verso l’Europa, un paio di decine d’anni fa». Dalle prime due distillerie in California negli anni Ottanta, racconta Riva, oggi in tutti gli Stati Uniti quelle artigianali sono 2500 circa. Così in Inghilterra, dove da una ventina di distillerie negli ultimi 10 anni sono passati a oltre 150, superando in quantità quelle scozzesi. «L’Italia sembrava inizialmente tagliata fuori dal fenomeno, ma da 2 anni a questa parte anche il nostro Paese c’è dentro in pieno, anche se i volumi non saranno mai al pari degli omologhi stranieri». Oggi in italia i birrifici artigianali attivi, moltiplicatisi in pochi anni, sono circa un migliaio, e dimostrano come ci sia terreno fertile per un’evoluzione anche nel campo dei distillati.
Qui si consuma soprattutto gin e si distilla soprattutto grappa, con una tradizione che risale a quasi 1000 anni fa: un’ampia concentrazione di distillerie piccole e grandi, giovani e antiche, meno note o riconosciute in tutto il mondo, si snoda lungo la penisola, con punte soprattutto in nord Italia – qui un altro database in cui perdersi. Le distillerie di grappa o brandy attive nel Paese sono circa 90, la metà delle quali sono in Alto Adige e distillano dalla frutta secondo il metodo austriaco, mentre spirits come il whiskey per lo più vengono importati e imbottigliati – tanto che la prima e unica distilleria italiana di whiskey è Puni, in Val Venosta. I requisiti di base per dirsi “artigianali” sono le piccole dimensioni, con una produzione di poche migliaia di bottiglie all’anno, e l’indipendenza accertata da strutture più grandi. «Gran parte dei distillatori italiani – racconta Riva – sono pionieri che cominciano senza avere la possibilità e il volume per poter aprire una distilleria vera. In molti, per il momento, lavorano quindi ad accisa già pagata, comprando alcool industriale che lavorano per aromatizzarlo e personalizzarlo, ottenendo gin e vodka, i più conosciuti, economici e richiesti nel mondo dei cocktail. Il grande passo, che porterebbe anche in Italia nel mondo della distillazione vera, è quello che parte dalla birra per arrivare a un whiskey, dalla melassa per fare un rum, dal vino per fare un brandy, spirits invecchiati verso cui c’è ancora poca sensibilità».
C’è una nuova generazione di distillatori artigianali in Italia che vuole colmare queste lacune, trentenni con provenienze completamente diverse, ma accomunati da un certo estro, dall’attenzione verso la materia prima e la biodiversità, oltre alla territorialità, e da un percorso che inizia spesso da autodidatta, mancando una vera offerta formativa su scala territorio nazionale. È il caso per esempio di Eugenio Belli, laureato in filosofia che ha fondato in Brianza, nel 2018, la sua distilleria indipendente, Eugin, che punta su una ricerca di ingredienti il più possibile brianzoli per ottenere gin altamente aromatici. Partito da alcuni esperimenti casalinghi, Belli, che in pochi mesi di attività ha già ricevuto diversi riconoscimenti, ha prima però dovuto affrontare tutte le difficoltà di chi si incammina su un terreno davvero poco battuto. «Basti pensare che per ottenere la licenza ci ho messo quasi due anni». Non per limiti personali, ma proprio perché in Italia le stesse dogane non sono abituate a confrontarsi con le relative normative, confinate in qualche faldone dimenticato e impolverato. «Dal Dopoguerra in poi – spiega Riva – non si è fatto altro che chiudere distillerie: in 50 anni si è così persa la conoscenza dei procedimenti burocratici per il rilascio delle licenze, ma è una carenza risolvibilissima, anche ispirandosi alle definizioni e procedure dei birrifici».
A Gaiole, nel Chianti, Enrico Chioccioli Altadonna, trentunenne la cui famiglia opera nel mondo del vino da 2 generazioni, ha invece scommesso circa 6 anni fa sull’idea di Winestillery, oggi distilleria a conduzione famigliare di gin, vodka e vermouth, nata come costola produttiva della realtà aziendale vinicola già ben avviata. «Io sono il mastro distillatore, oltre che avvocato; mio fratello maggiore è enologo, e mio padre, nel mondo del vino da quasi 30 anni, ci dà preziosi consigli». Altadonna, dopo la laurea in giurisprudenza, spinto da curiosità personale e voglia di sperimentare, è andato a New York per imparare sul campo le tecniche di distillazione del whiskey presso la Kings County, la prima distilleria a riaprire in città dai tempi del proibizionismo. «Mi hanno contagiato con il loro entusiasmo e dopo 3 mesi sono tornato in Italia per mettere in pratica il mio piano, che ha richiesto diverso tempo a causa della lentezza burocratica». Dopo altre esperienze formative, in Italia e in Francia, anche la creazione dell’alambicco, Bacco (sì, gli alambicchi ricevono solitamente un nome proprio dai distillatori che li utilizzano) costruito dall’italiano Frilli, leader nel settore, ha richiesto un paio d’anni. Nel gennaio 2019, finalmente, Altadonna è arrivato alla prima vera distillazione ufficiale e ha lanciato i primi prodotti sul mercato nel maggio successivo, in occasione della Florence Cocktail Week.
Spostandosi più a sud, a Portico di Caserta, l’azienda agricola Berolà distilla invece la frutta del territorio seguendo la lezione del maestro di Bassano Capovilla, e propone distillati e grappe che vengono soprattutto distribuiti nei ristoranti della zona e restano ancora un prodotto di nicchia visti i costi più alti: da 100 chili di ciliegie, ad esempio, si ottengono infatti 7 litri di distillato imbottigliabile. Il fondatore Antonio Di Mattia, laureato in chimica e da sempre affascinato dai processi di distillazione, è partito dal frutteto di famiglia, che offriva materie prime di qualità e per ampliare la clientela punta ora a diversificare la produzione, allargandola al gin e al rum. «Il progetto è partito 6 anni fa e per avere la prima licenza ci ho messo circa un anno e mezzo: ho già a disposizione una piccola coltivazione di canna da zucchero, ma sto attendendo ancora da mesi la verifica per avviare la nuova produzione», spiega Di Mattia, che ha visto i tempi dilatarsi ulteriormente causa pandemia. A differenza dei colleghi, Di Mattia non ha dato un nome al suo alambicco, ma ha inventato una mascotte, il Dottor Sapere, che promuove l’idea di bere con cultura, esaltando le complesse tecniche della distillazione e la componente più tradizionale del prodotto. Insieme, per spiegare il prodotto, organizza visite in distilleria che in futuro potrebbero a loro volta diventare un trend: così come già accade per birra e vino anche qui, e come già accade in altri paesi del mondo, il turismo nelle micro-distillerie potrebbe diventare comune anche in Italia.
L’attenzione per la mixology in Italia non manca, e sempre più bartender si stanno rendendo conto che anche in Italia nascono realtà non industriali e slegate dalla grande distribuzione, in grado di proporre prodotti di grande qualità e forte identità, che portano con sé storie di persone e approcci estremamente legati al territorio. Già accade con i whiskey e rum pregiati stranieri, perché non dovrebbe succedere con gli spirits italiani? Ed esistono già progetti che, nati prima della pandemia e del boom di take away e delivery, sono diventati ancor più attuali: The Gin Way ad esempio, idea dei bresciani Alessio Maccione, Cesare Zavattaro e Sabrina Sinigaglia, recapita a casa dei suoi abbonati una mistery box tutto l’occorrente per realizzare cocktail professionali. Ogni mese, a sorpresa, viene selezionato un gin artigianale italiano, pescando tra 500 etichette, spedito insieme ad altri ingredienti ricercati quanto il packaging e le ricette proposte per trasformare quel gin in cocktail che fanno concorrenza a quelli dei migliori bar. I tratti sicuramente in comune tra i distillatori di gin italiani, racconta il trio, sono la passione e la voglia di creare qualcosa di proprio, con un’attenzione per le botaniche, i profumi e gli aromi tipici del nostro Paese (ricordiamoci che l’Italia è una delle maggiori produttrici di ginepro a livello mondiale), e di farlo conoscere a quante più persone possibile. «Se tutto andrà come speriamo, nei piani c’è sicuramente l’apertura verso il mercato europeo per portare le realtà italiane fuori dai nostri confini». Che il 2020 sia davvero l’inizio di una nuova era del made in Italy?