Dizionario della censuraPer Giuseppe Culicchia, la cancel culture è un pericolo reale per la libertà di espressione

Secondo lo scrittore torinese, autore di “E finsero felici e contenti” (Feltrinelli), queste istanze non aiutano la convivenza. Al contrario alimentano un clima di repressione che danneggia la società

Tolga Akmen / AFP

Una volta era la “cultura del piagnisteo”, oggi è diventata della “cancellazione”. Per lo scrittore torinese Giuseppe Culicchia la sostanza non cambia, è soltanto aumentata l’intensità. Lui, che ha appena pubblicato per Feltrinelli “E finsero felici e contenti: Dizionario delle nostre ipocrisie”, ispirato al modello di Gustave Flaubert, conosce bene il tema, lo segue da tempo, ne ha fatto una battaglia – non va nemmeno dimenticato che ha tradotto per Einaudi “Bianco”, di Bret Easton Ellis, con cui si introduce la prima critica all’ondata censoria americana.

«Già nel 2009 ero stato colpito dal fatto che, in una università americana avessero deciso di bandire ”Huckleberry Finn” di Mark Twain perché conteneva la parola “negro”».

A suo avviso, una follia: «Proprio lui, uno scrittore che si era sempre battuto contro il razzismo, aveva disertato il battaglione dei Confederati» e soprattutto, «si accanivano su un libro fondamentale per la letteratura americana, un capolavoro da cui attingono Hemingway e tanti altri, uno dei primi che pesca e riproduce il linguaggio della strada. E “negro”, in questo senso, era un termine inevitabile, lo si adoperava all’epoca, era di uso comune. E non era sentito come razzista».

A questo episodio ne sono seguiti altri. «Per esempio l’idea di emendare la “Commedia” di Dante perché contiene materiale razzista e omofobo. O più di recente le polemiche contro l’attrice Halle Berry, che avrebbe dovuto interpretare il ruolo di un personaggio trans. Tanto hanno protestato che ha dovuto rinunciare alla parte».

Tutte cose che, in linea di massima, vengono affrontate nella ormai celebre (o famigerata, a seconda dei punti di vista) lettera degli intellettuali americani a Harper’s. «Sono d’accordo su tutto quello che c’è scritto».

La questione è delicata. Dietro a queste istanze c’è una impalcatura ideologica che cerca di ristabilire gli equilibri della convivenza sociale, «e in questo senso basta la cronaca di ogni giorno per farci vedere che è vero, la convivenza non funziona tanto bene. Ma io trovo che gli emarginati, le classi subalterne, i Lumpen di una volta, abbiano il dovere di rivendicare i propri diritti, anche con rabbia. Per esempio: chi a Parigi fa il casseur perché vive in una condizione di discriminazione violenta, ecco, quello lo capisco (e il concetto di violenza, aggiungerei, va ricalibrato)».

Ma nonostante questo, non si può accettare «l’imposizione di forme di censura o di autocensura per posizioni non mainstream». Cita il caso di Martina Navratilova, campionessa del tennis, omosessuale, che è stata subissata di critiche per aver sollevato dubbi sulla legittimità di includere i giocatori trans (cioè da uomini a donne) nei match di tennis femminile.

«E stiamo parlando di una che si è battuta per i diritti degli omosessuali e che ha vinto più volte a Wimbledon. Sa cosa dice». È una piega pericolosa: «Una cosa è rivendicare i propri diritti, un’altra diminuire quelli degli altri».

A voler fare un quadro più ampio, si nota che le prime manifestazioni di questa tendenza si annidano «nell’ipocrisia di chi vuole ripulire il linguaggio».

Culicchia la prende alla lontana: si va dal «mondo del lavoro, dove sono stati introdotti gli “esuberi” e la “mobilità” per definire i licenziamenti e della cassa integrazione», fino all’idea di chiamare «”non vedenti” i ciechi, i quali tra di loro si chiamano così».

Il filo rosso è l’ansia «di edulcorare tutto», un desiderio di correttezza politica che, da una parte, porta a reazioni radicali. Dall’altra a un «imbarbarimento violento». Come «il bullismo, che va inquadrato come una questione di educazione civica» e discende da una svalutazione dell’autorità scolastica. Eppure proprio quello della scuola «è la prima occasione della vita in cui ci si confronta con una realtà diversa da quella familiare. È il primo momento in cui siamo cittadini».

Tornando alle istanze più radicali, va detto che il fenomeno in Italia «è ancora limitato, anche se si registrano dei casi. Ad esempio l’ultimo film di Checco Zalone, “Tolo Tolo”, era stato criticato da molti come razzista, a prescindere, prima ancora che lo vedessero».

Oppure «il boicottaggio contro Dolce & Gabbana, che si erano detti contrari all’utero in affitto. Era una loro opinione, non certo un tentativo di togliere agli altri questa possibilità, ma è bastato per essere presi di mira».

Tra i responsabili di questo atteggiamento lo scrittore individua, in primo luogo, «i social. Sono devastanti. Hanno bandito la complessità, riducendo la realtà al bianco e al nero, al “mi piace” e “non mi piace”. Tagliare con l’accetta è sempre un male».

Ma c’è anche la politica: «Sono 40 anni che sento parlare di un imminente ritorno del regime fascista. Da Cossiga in poi. Eppure, non è ancora successo».

Il motivo? «Si tratta di una strumentalizzazione da parte di una certa sinistra che non fa più la sinistra. Si copre con la foglia di fico dell’accoglienza, dell’antifascismo e dei diritti civili», dimenticando di tutelare chi lavora, soprattutto i più giovani, fino a favorire «il precariato. Ha formato una generazione che ha difficoltà a costruirsi un futuro, che campa con i soldi dei genitori». Ma quando non ci saranno più, «cosa faranno?».

È il fenomeno «di politiche liberiste non portate avanti dai liberisti, che pure avrebbero ragione a farlo, visto che lo sono», ma dalla sinistra. «E questo spiega perché adesso molti di loro votano quegli altri». Cioè la Lega e Fratelli d’Italia.

Per tornare in ambito internazionale, «la lettera a Harper’s è già stata sottoposta a critiche di ogni tipo. Sono stati accusati di essere bianchi, di una certa età, privilegiati. E di voler mantenere la loro influenza. Tutte cose vere, anzi verissime. È ovvio che Salman Rushdie ha più facilità di altri (eccome) di vedersi pubblicato un libro, ma non è questo il senso di quell’appello. Loro rivendicano il diritto di potersi esprimere in libertà».

Perché, ribadisce, «non è possibile che uno scrittore non possa scrivere una storia in cui i personaggi non fanno parte della sua etnia. Eppure la letteratura è anche, anzi è proprio calarsi nei panni degli altri. Perché non si può raccontare la storia degli altri? Perché Woody Allen, che non è mai stato riconosciuto colpevole da nessun tribunale non può pubblicare il suo libro? A un certo punto sembrava che lo potesse fare solo in Italia. E perché ci sono attori che chiedono scusa per aver recitato nei suoi film? Perché, insomma, non si riesce a distinguere tra l’uomo e l’opera?».

Le cattive idee, conclude «non si combattono con la censura e la cancellazione. Io capisco la rabbia, ma resto preoccupato».

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