A gennaio 2016 a New York ci fu una tempesta di neve abbastanza forte da far chiudere i teatri. Il New York Times intervistò alcuni turisti dispiaciuti perché erano a New York apposta per vedere Hamilton, e chissà quando sarebbe ricapitato, i primi biglietti disponibili erano per la fine di quell’anno. La coppia arrivata dall’Arkansas che aveva speso 1500 dollari per uno spettacolo che non avrebbe visto, l’infermiera che dal Connecticut aveva comprato i biglietti per sé e per la sorella a 650 dollari: sono quattro anni che li uso come esempi per dire ai teatranti italiani che i loro biglietti a cifre simboliche tanto ci sono le sovvenzioni statali sono una scemenza, le cose valgono quanto le paghi; sono quattro anni che mi rispondono che Hamilton è un fenomeno pop, mica uno spettacolo qualunque.
E in effetti lo è: ha fatto di Lin-Manuel Miranda, che l’ha scritto e ha interpretato Alexander Hamilton per le prime stagioni (ovviamente il musical è ancora in scena, o meglio lo sarebbe se Broadway non fosse chiusa per virus), una star, uno con cui tutti vogliono lavorare, uno che può farsi finanziare qualunque cosa.
E adesso Hamilton è sulla piattaforma Disney, era previsto per la fine dell’anno ma Miranda ha deciso che il pubblico quarantenato avesse bisogno di consolazione, e quindi l’hanno messo on line il 4 luglio.
Era la mia occasione di mettermi in pari con le infermiere del Connecticut, quindi ho acceso e l’ho trovato subito irresistibile, sebbene non avessi mai sentito le canzoni (conosco gente che in questi anni ha consumato il cd, o come si chiamano adesso). Poi però è entrato in scena George Washington, e ha detto le parole fatali.
«I’m the model of a modern major general».
Può essere che la frase non vi evochi niente, giacché in Italia non abbondano i fan di Gilbert e Sullivan. Nell’operetta più famosa dei due compositori inglesi – Pirates of Penzance, del 1879 – c’è una canzoncina irresistibilmente moschicida che s’intitola The very model of a modern major general. È, come quasi sempre le cose di Gilbert e Sullivan, incantabile: velocissima, impossibile non impappinarsi, ma anche impossibile non ostinarsi a provarci. E infatti, appena Washington ha detto così, io ho dovuto fermare Hamilton e correre su YouTube a provare a star dietro a un qualunque video di Pirates of Penzance.
Perché – lo sa persino Carlo Freccero, che nella Rai 2 del 1997 mise in onda Furore, un programma fatto tutto di canzoni di cui sapessimo le parole e potessimo squarciagolare dai divani – canzone vecchia vince sempre su canzone nuova. Anche se l’autore della canzone nuova è bravissimo e ci mette l’omaggio all’operetta dell’Ottocento senza perdere un milligrammo di contemporaneità. Anche se l’autore nuovo fa una canzone vecchia.
La prima volta che ho avuto indizi di “I love my radio”, ero dalla manicure e, quando una dj di quelle che parlano troppo ha iniziato a cianciare di Mare mare, ho spiegato alla manicure (cinese, quindi con madeleine diverse dalle mie) che quella era una fondamentale canzone della mia giovinezza, e di prepararsi ad ascoltare la meraviglia. Poi la canzone è partita, e non era lei. Era una specie di versione da pianobar; mi sono scusata con la manicure e con la mia giovinezza e sono tornata a casa ignara.
Quando mi hanno spiegato il progetto – prendere dieci canzoni famosissime e farle rifare da cantanti che non le avessero cantate in prima battuta – mi sono ricordata dei miei anni in radio. Della delirante divisione tra novità, oldies, goldies, con lo schema di quante di ogni categoria dovessero passare ogni ora, e il poverino addetto a mettere dei titoli nelle apposite caselle che si scervellava a cercare un equilibrio, perché lo sappiamo tutti che Gloria di Umberto Tozzi è meglio di qualunque novità di decenni dopo, epperò se non metti i pezzi nuovi poi i discografici non ti portano gli ospiti, non ti danno le interviste, perdi rilevanza sul mercato, per non parlare dei cd omaggio.
Adesso che non esistono più i discografici né i cd, ma evidentemente le dinamiche sono ancora quelle, si sono inventati la canzone vecchia che però è nuova, “Non sono una signora” fatta da Giorgia, “Sei nell’anima” fatta dai Negramaro: quella che posso segnare come novità nello schema orario, ma l’ascoltatore non s’annoia come a sentire una canzone di cui non sappia le parole.
Credo l’illusione sia questa. Solo che io “Non sono una signora” voglio sentirla fatta dalla Berté. Al massimo dalla Parietti, se voglio ridere. Al massimo da un uomo, per il gusto dello stravolgimento. Ma anche lì: la sentirei una volta, per sfizio, e poi correrei a metter su un vecchio cd (sì, li uso ancora, sono decrepita e me ne vanto).
Le canzoni vecchie ricantate sono quelle ricette che vengono bene pochissime volte: “Vola” è molto meglio fatta da Fossati, che nell’originale incisa da Patty Pravo, ma è perché l’originale la conosciamo in tredici, e perché quando un autore si riprende una propria canzone non può che farne una meraviglia (pensate a cosa sarebbe stata “Non sono una signora” incisa da Fossati, sarei persino disposta a pagare per sentirla: pagare la musica nel 2020, rendiamoci conto del gesto estremo); e “Hallelujah” fatta da Leonard Cohen batte 6-0 la più famosa versione di Jeff Buckley, sono disposta a sfidare a duello chiunque asserisca il contrario.
Ma, come regola generale, delle canzonette vogliamo sentire la versione con cui siamo cresciuti, ci siamo innamorati, siamo andati al mare con l’autoradio a volume tamarro.
E non è detto che sia la versione del 45 giri (una cosa del Novecento, non state a indagare). “Rewind”, per esempio, stava in un disco così pieno di canzoni pazzesche che non ebbe lo spazio per diventare famosa fino al disco dal vivo in cui Vasco la faceva cominciando con «Ciao», e io adesso Rewind posso sentirla solo col «ciao».
Lo sappiamo che nessuno più sa scrivere canzoni e che quindi se uno non vuole sparire dal mercato della musica il futuro è la cover, ricantare Dalla, ricantare Guccini, ricantarli tutti. Però, ecco, tenete presente che è come flirtare con uno che somiglia al tuo ex: finisce che t’inventi un mal di testa, accorci la serata, e corri a casa a piangere sulla foto dell’originale.