Tra le molte ragioni per cui essere grati d’esser gente d’insuccesso, la possibilità di morire senza un lutto pubblico è sicuramente la principale.
Morire da famosi, nell’era dei social, è un fenomeno che, alla milionesima replica, ancora sfonda i rilevatori di senso del ridicolo e fa venir voglia di staccare tutte le connessioni e andare a vivere nella capanna di Unabomber.
Ieri, per Ennio Morricone, s’è visto tutto il cucuzzaro di cliché ormai imprescindibili.
Le foto col morto, postate sempre da gente un po’ meno famosa del morto ma smaniosa di cogliere l’occasione per un po’ di luce riflessa, sono tutte uguali: il morto ha sempre l’aria «non so chi sia questo tizio che m’ha chiesto di farci una foto», chi pubblica la foto dopo il decesso aveva già nella foto l’aria «questa me la metto da parte come prova che l’ho conosciuto».
Il picco di questo fenomeno si ebbe con la morte di Karl Lagerfeld, col quale, si scoprì a cadavere tiepido, non c’era valletta di second’ordine che non avesse una foto. Naturalmente, nell’appiattimento social, la foto con lui pubblicata da una sua cara amica è indistinguibile da quella pubblicata da una televenditrice di prosciutti che l’avesse braccato a una sfilata implorando «Maestro, una foto». Morire su Instagram è la vera livella.
Se non sono foto, sono ricordi. Ieri mi sono imbattuta in un dirigente televisivo che ha raccontato il momento in cui incontrò Morricone nel backstage d’un concerto e gli disse «Grazie per la sua musica», e quello rispose «Sì, vabbè, prego»; e nel sindaco di Napoli che ha twittato delle sue musiche «immemorabili» (chissà cosa crede voglia dire, tenerello) – per dirne solo due dei fantastiliardi di italiani che avevano un illuminante aneddoto sul defunto. Se non socializzi la tua sul morto, non esisti.
Poi ci sono quelli che postano le opere, che nel caso di uno che faceva musiche da film spesso non sono le scene dei film ma le sole tracce audio, perché chi non ascolta in macchina, sotto la doccia, gli strumentali delle colonne sonore, come no, me le immagino le vostre playlist di Spotify piene di colonne sonore di “L’uccello dalle piume di cristallo”. Tutti ad annuire quando De Gregori dice che non ha senso leggere i testi delle canzoni senza la musica, e poi vogliamo convincerci che le musiche dei film abbiano senso senza le scene di quei film.
Per non far finire subito il lutto social, ci sono poi gli account perpetui. Ero amica di Facebook d’uno scrittore italiano morto da dieci anni: ogni tanto compaiono messaggi che qualcuno gli ha lasciato in bacheca, e mi chiedo che spettacolo possa essere il cervello d’uno che lascia messaggi social sulla bacheca d’un morto, un morto che neppure ti risponde «Gradoli».
Una settimana fa è morto Carl Reiner, colosso della comicità americana del Novecento. Sebbene novantottenne, aveva un profilo Twitter. Mezza giornata prima di morire, twittava spiegando all’ignorantissimo popolo della rete i pregi di Noël Coward, colosso della comicità inglese del Novecento. Era bellissimo che quelli fossero i suoi ultimi tweet, che fino all’ultimo fosse stato lucido e sapiente.
Ma sull’internet non ci può mai essere niente di bellissimo, e quindi la famiglia s’è messa a fare tweet postumi, invece di lasciare quel profilo congelato nella sua perfezione.
L’ultimo e più fesso cliché è il bisogno, a cadavere ancora caldo, di fare quelli che dicono la cosa scomoda, ah!, troppo facile lodare il defunto. Ieri si è sacrificata a interpretare questo ruolo la scrittrice Melissa Panarello, attribuendo a Morricone la colpa delle donne che in fase 3 stanno a casa coi figli mentre gli uomini tornano al lavoro.
Ha scovato, la segugia Panarello, un virgolettato in cui Morricone (nato nel 1928) raccontava di sua moglie (nata nel 1932) che «mentre io componevo lei si sacrificava per la famiglia e per i nostri figli. Per cinquant’anni ci siamo visti pochissimo: o ero con l’orchestra o stavo chiuso nel mio studio a comporre. Nessuno poteva entrare in quella stanza tranne lei: il suo unico privilegio».
Come una vera femminista dei cancelletti, attenta a priorità quali la realizzazione nel lavoro delle nate nella prima metà del Novecento e il dovere di cambiare i pannolini dei maschi nati un secolo fa, Panarello le canta al cadavere tiepido – «È stato uno dei più grandi musicisti del nostro tempo, però sarebbe bello non leggere mai più frasi di questo tipo» – e anche ai commentatori che osano dissentire.
Selezione di risposte panarelle: «Dire che ai loro tempi era giusto così, purtroppo non regge, ricorda troppo quella vicenda della statua imbrattata» [virgole come nell’originale, ndS]; «Non ho nulla contro Morricone»; «Per la sua grandezza è stato pagato il prezzo da una donna»; «Se avesse dovuto occuparsi lui della casa, della famiglia, sarebbe rimasto il genio che era, senza dubbio, ma avrebbe fatto meno della metà delle cose per cui lo conosciamo».
Quindi, riassumendo, il femminismo di questo secolo prevede che il genio acclarato, invece di lavorare, lavi i piatti, acciocché la moglie abbia modo d’esplorare se ha un qualche talento e se per caso è sprecata come moglie e madre. Non è chiarissimo, nel femminismo dei cancelletti così come a casa Blair, perché diavolo non venga assunto personale di servizio, dimodoché il genio faccia opere di genio e la moglie faccia un po’ ciò che le pare, anche limarsi le unghie tutto il giorno.
Ma forse il personale di servizio c’era, e l’immagine della moglie ancella era, più banalmente, quella che al defunto piaceva evocare, ignaro di quanto sarebbe stato stolido il letteralismo dei posteri.
Ieri c’erano ovunque interviste a Carlo Verdone. In tutte c’era un qualche dettaglio plutocratico. La dichiarazione dei redditi di Ennio la prima volta che Sergio Leone lo portò a casa sua, le royalties americane, il costo spropositato delle sue colonne sonore.
C’era, nei ricordi di Verdone, l’unica ragione per cui vale la pena morire da noti e venire rimpianti dagli sconosciuti: i depositi di dobloni, e l’annessa certezza che a casa Morricone ci fosse qualcuno pagato per lavare i piatti.