Jacques Delors compie è considerato l’«architetto della moderna Unione Europea», come lo ha canonizzato il centro studi dell’Europarlamento. Ripassare la sua biografia vuol dire capire meglio, e dall’interno, l’integrazione dell’ultimo quarto di secolo. Una decade porta il suo nome. Dal 1985 al 1995 è stato, per tre mandati consecutivi, il presidente della commissione europea. A quell’arco di tempo risalgono pietre miliari come Schengen (gli accordi sono del 1985) e il trattato di Maastricht (1992), l’atto di nascita dell’UE che prima si chiamava «Comunità europea», fino alla creazione del mercato unico, in vista di una moneta comune: l’euro. Ma la storia politica di Delors è un preludio a quei traguardi.
Nato a Parigi nel 1925, da ragazzo è costretto a trasferirsi spesso a causa dell’occupazione nazista della Francia. Si laureerà nel dopoguerra, frequentando le lezioni serali di Sciences Po, perché di giorno lavora, sulle orme del padre, alla Banque de France, dove avrà una carriera fulminante. Il suo apprendistato politico, nonostante l’orientamento della famiglia, non sarà socialista: dura solo un paio di mesi nel Mouvement républicain populaire (MRP), lo stesso di Robert Schuman, ma poi rimane nell’orbita cristiano-democratica, nelle file del sindacalismo cattolico.
In questa veste, dal 1959, siede nel Conseil économique et social, un organo consultivo dell’esecutivo che mirava ad appianare le tensioni fra industriali e forza lavoro. Tre anni dopo lascia la prima sigla sindacale di Francia per guidare la sezione delle politiche sociali del Commissariat général du plan, l’agenzia governativa per la pianificazione economica. Sulla scia del maggio 1968, entra nel gabinetto del primo ministro Jacques Chaban-Delmas, un fedelissimo di De Gaulle.
È così apprezzato che nel maggio 1974 entrambi gli sfidanti di quella contesa elettorale, il socialista François Mitterrand e il repubblicano Valéry Giscard d’Estaing, gli offrono un posto da ministro, ma Delors rifiuta. L’ottobre dello stesso anno si iscrive al Parti socialiste, nonostante l’ostracismo di alcuni dirigenti contro i suoi trascorsi a palazzo. Lui si ritiene un civil servant e alla poltrona preferisce la cattedra: insegna Management all’università di Parigi.
Se in patria ha sempre esitato a candidarsi, i dubbi evaporano quando nel 1979 i cittadini sono chiamati a eleggere il primo Parlamento europeo. Delors decide di correre, ma il partito lo insabbia in fondo alla lista, in 21esima posizione (su 23). Le urne lo premiano e verrà indicato per presiedere il Comitato per le politiche economiche e monetarie della prima legislatura. Ciò farà di lui l’unico presidente della commissione europea, insieme al successore Santer, a poter contare su una precedente esperienza da eurodeputato.
Nel 1981, si dimette per diventare ministro delle Finanze dopo la vittoria di Mitterand alle presidenziali. Si batterà – con successo – per tenere sotto controllo inflazione e debito pubblico, un’«austerità» invisa alla frangia sinistra dei socialisti e modellata su quella della CDU di Helmut Kohl. Non a caso, quando nel 1984 il cancelliere rinuncerà a esprimere un presidente tedesco della commissione europea, pronuncerà una formula sibillina: Berlino accetterà un candidato francese, a patto che «le sue iniziali siano J.D.».
Jacques Delors rispetta questa condizione, ma il placet di Kohl se l’è guadagnato sul campo, consolidando la propria reputazione internazionale nel corso degli anni. Il decennio successivo coincide con l’incubazione dell’Europa per come la conosce, oggi, la Generazione Erasmus. Resterà al timone fino al 1995, durante una tempesta geopolitica: in quel decennio, si conclude la guerra fredda, con il crollo dell’Urss e la riunificazione tedesca, mentre la Jugoslavia si frantuma nella spirale di un tragico conflitto civile.
Nel frattempo, la famiglia comunitaria si espande: Spagna e Portogallo entrano nel 1986; Austria, Svezia e Finlandia nel 1995. Nel 1986, l’Atto unico europeo è la prima revisione dei trattati di Roma del 1957: all’assemblea fra Strasburgo e Bruxelles viene riconosciuto potere legislativo. Il già citato trattato di Maastricht (1992) battezza l’Unione Europea e stabilisce pesi e contrappesi fra Consiglio europeo ed europarlamento, con la Commissione come terzo pilastro. Dietro il meccanismo, c’è il tratto di Delors.
A lui si deve una pianificazione economica di lungo respiro: quinquennale, contro il budget annuale di prima. Da ex deputato, presenterà in aula la sua agenda, rafforzando così la legittimità della plenaria. «Potrebbe non essere eccessivamente ottimistico – dice in quel discorso del gennaio ’85 – annunciare la decisione di eliminare tutte le frontiere all’interno dell’Europa entro il 1992». Ha ragione. Mette nero su bianco trecento misure per cancellare i confini fisici, tecnici e doganali: l’impalcatura del mercato unico e della libertà di movimento per merci e persone.
Con maestria diplomatica, vince le resistenze inglesi nominando commissario al Commercio interno Arthur Cockfield, emanazione della lady di ferro Margaret Thatcher. Ma c’è la regia del francese anche dietro l’accelerazione verso la moneta unica, dopo decenni di teoria ma scarsa prassi. Ad Hannover, nel giugno 1988, riceve mandato di formare un tavolo con i governatori delle banche centrali europee. Quello che diverrà noto come «Comitato Delors» partorirà un report poi incorporato nel trattato di Maastricht.
Al termine della sua decade, si rincorreranno le speculazioni circa una sua candidatura all’Eliseo, contro l’avversario di destra Jacques Chirac. Nonostante sondaggi incoraggianti, ancora una volta Delors declinerà, senza cedere alle lusinghe dei socialisti. Prima che sulla patria, la sua statura si staglia sull’orizzonte europeo, che non abbandonerà: fino al 1999 presiede il Collegio d’Europa di Bruges, nel ’96 fonda il think-tank «Notre Europe», con filiazioni a Parigi, Bruxelles e Berlino. Nell’Europa del presente si leggono la sua eredità e la sua impronta.