L’altra crisi che ci attendeL’Italia non è pronta ad affrontare insieme coronavirus e inondazioni

Il paese da tempo sottovaluta la messa in sicurezza del territorio, preoccupandosene soltanto a tragedia avvenuta. La colpa, più che della mancanza di risorse, è della burocrazia e di una scarsa cultura della prevenzione. Forse però le misure immaginate per far ripartire l’economia e l’edilizia aiuteranno anche i comuni a prepararsi meglio

Marco Bertorello / AFP

C’è un’altra emergenza che potrebbe impegnare l’Italia questo prossimo autunno e non ha a che fare con il covid-19: è quella legata al rischio idrogeologico, uno dei principali pericoli per il territorio italiano. Il 15 luglio Palermo è stata colpita da un fortissimo temporale e si è allagata. Il 24 luglio è stata Milano a finire sott’acqua a causa dell’esondazione del fiume Seveso. 

A pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, dunque, due fenomeni temporaleschi di incredibile violenza si sono abbattuti sul Paese dando ancora una volta conferma che qualcosa nel clima è mutato. Se prima queste piogge tanto intense da creare allagamenti o frane arrivavano poche volte l’anno e avevano carattere di eccezionalità, ora sono sempre più frequenti e il territorio non è preparato a gestire una quantità d’acqua così importante. 

Soprattutto se si considera che in base ai dati dell’Ispra, le aree a pericolosità idraulica elevata in Italia sono pari a 12.405 km quadrati, circa il 4,1% del territorio nazionale, mentre le aree a pericolosità media sono di 25.398 km quadrati, pari all’8,4% del territorio. «Dal punto di vista geologico – spiega Vincenzo Giovine, del consiglio nazionale dei geologi – l’Italia presenta tutte le problematiche di un territorio a rischio: abbiamo grandi fiumi al Nord e al Centro, abbiamo zone montuose molto fragili, abbiamo un territorio sismico e infine abbiamo anche i vulcani, soprattutto al Sud. Ma il problema non è la naturale conformazione del territorio  – spiega Giovine – il vero problema è l’approccio con cui affrontiamo tutte queste tematiche, perché siamo poco attenti alla prevenzione e al rispetto dell’ambiente. Su questo siamo ancora molto indietro». 

La mancanza di cura verso il territorio che ci circonda è un dato di fatto e nonostante le campagne di sensibilizzazione la situazione non è migliorata. 

Secondo i dati pubblicati qualche giorno fa dal Rapporto Ispra Snpa sul Consumo di suolo, in Italia vengono cementificati 2 metri quadrati di suolo al secondo, anche nelle aree a rischio idrogeologico e sismico. «Si resta sgomenti quando si vedono Palermo, Milano, Genova finire completamente allagate ma se si considerasse la morfologia di queste città e il livello di urbanizzazione, allora sarebbe comprensibile» spiega ancora Vincenzo Giovine. 

«Quasi tutte le città italiane sono costruite lungo corsi d’acqua sono state ingrandite occupando grandi porzioni di territorio che sarebbero dovute rimanere libere. Oppure sono state cementificate intere sezioni di corsi d’acqua naturali, spesso sono stati anche  modificati nel loro tragitto, come è stato per il Seveso, che è intubato e scorre sotterraneo per una parte di Milano» continua Giovine.

La tendenza a modificare il corso dei fiumi o a interrarli è particolarmente comune, soprattutto nelle grandi città del nord: «A Genova – racconta Giovine –  ci sono corsi d’acqua a carattere torrentizio che restano asciutti per molti mesi l’anno ma con piogge intense si gonfiano in pochi minuti perché l’alveo è ristretto o modificato, e quindi tracimano e le acque risalgono con violenza». 

Quando si verificano questi allagamenti in città gli amministratori locali devono intervenire con urgenza, sia per arginare i problemi sia per prevenire che accada nuovamente. Eppure non sempre le politiche di prevenzione sono all’altezza: «Il contatto con noi geologi è frequente, ma solo nel post, mai nel periodo tranquillo» dice Giovine.

Gli amministratori locali, continua il geologo, «ci chiamano per farsi raccontare le caratteristiche del territorio, i possibili interventi e noi ribadiamo sempre le stesse cose: ci vuole programmazione e prevenzione. Questo rapporto intermittente denota un problema a monte nell’approccio culturale alla risoluzione della questione, perché si pensa che si possa risolvere tutto dall’oggi al domani e invece occorre una pianificazione pluriennale». In pratica si confonde il problema del dissesto idrogeologico, che è costante, con l’emergenza che, come indica il termine stesso, è una situazione critica che va gestita e tamponata quando si verifica.  

In effetti, l’aspetto culturale dell’approccio al dissesto pesa molto più dell’aspetto economico. Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha ribadito che per l’emergenza idrogeologica sono stati stanziati 11 miliardi di euro, ma di questi ne sono stati spesi pochissimi. «Sono decenni che il territorio è stato urbanizzato e violentato e quindi ora, a fronte di un cambiamento climatico in atto, ci troviamo impreparati», spiega Francesco Guadagno, docente di geologia applicata all’università del Sannio e membro del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. 

«Il guaio è che si pensa di poter fare qualcosa da qui all’autunno, ma è impensabile. Per fare interventi su situazioni di rischio ci vogliono progetti esecutivi che risolvano effettivamente i problemi, invece in Italia, a oggi, non ci sono progettazioni in stato avanzato che possano risolvere sia le grandi questioni che conosciamo da decenni, sia i nuovi fronti dell’emergenza», continua.

I team di esperti (ingegneri, architetti, geometri) che lavorano sul tema del rischio idrogeologico concordano sul fatto che sono fondamentali  piani di lunga scadenza, perché i soldi ci sono ma manca la capacità di comuni, province e regioni di mettere in esecuzioni questi progettazioni. «Io seguo alcuni eventi importanti sull’Appennino – dice ancora Francesco Guadagno – e so che c’è difficoltà proprio nei meccanismi della progettazione degli interventi. È incredibile perché, ribadisco, i finanziamenti esistono ma non ci sono progetti da finanziare. I comuni spesso non hanno i soldi necessari per costruire e progettare e quindi non si riescono ad aprire i cantieri».

Che i comuni abbiano difficoltà a gestire il dissesto idrogeologico lo conferma anche Matteo Ricci, vice presidente dell’Anci, associazione nazionale dei comuni italiani, nonché sindaco di Pesaro. «Il problema dei progetti è reale – spiega Ricci a Linkiesta –  noi abbiamo chiesto più volte allo Stato di stanziare fondi per fare progetti, però è anche vero che le procedure sono molto lunghe. Ad esempio, per il codice degli appalti si può bandire una gara d’appalto esclusivamente con il progetto esecutivo, ma i comuni non hanno le risorse interne per farli. Questa situazione di fatto blocca la maggior parte dei lavori».

Secondo Ricci, la crisi causata dal coronavirus ha paradossalmente contribuito a sbloccare la situazione: « Il decreto semplificazione ci consentirà di appaltare i lavori molto più velocemente, di fare interventi medi con affidamento diretto e lavori più grandi con procedure più semplici e immediate». 

Per il vice presidente dell’Anci l’opportunità va colta al volo «Superare il codice degli appalti con procedure semplificate ci aiuterà molto, perché i sindaci potranno tornare a fare le gare con il progetto definitivo o in alcuni casi con il progetto preliminare, scaricando sulle aziende il progetto esecutivo. A questo si aggiungono i fondi che arriveranno dall’Unione europea. Insomma, forse stavolta gli interventi strutturali li faremo per davvero». 

Per quanto i progetti possano essere realizzati in fretta, per i prossimi mesi non si riusciranno ad aprire cantieri per la messa in sicurezza dei territori più a rischio. L’unica soluzione, in vista dell’autunno, è rafforzare la protezione civile, continuare a fare informazioni e potenziare le procedure di emergenza per la popolazione.

Il cambiamento del clima osservato negli ultimi anni fa ragionevolmente temere nuovi potenti acquazzoni: «L’aspetto preventivo non viene considerato – aggiunge ancora Vincenzo Giovine – ma una programmazione seria di interventi è fondamentale così come è vitale l’organizzazione e la gestione dell’emergenza sanitaria, perché anche il clima incide su salute, economia e vita».

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