Makkox è uno dei pochissimi autori – e non mi limito solo ai suoi campi – a cui, oggi, in Italia, viene riconosciuta dal pubblico un’integrità tale per cui può esprimersi con fiducia. Non “appartenere” a nessuno è una conquista rarissima che si ottiene davvero solo con talento e abnegazione. Eppure, in un dibattito sempre più orientato a sprecare la semiotica per analizzare aspetti secondari, anche lui teme di non capire più se quanto dice può passare il vaglio della nuova morale. «Una volta mi piaceva moltissimo disegnare corpi femminili, ma adesso non ne pubblico più, non voglio rischiare».
Sarà inevitabile, sarà l’età, pensa. Ma forse il punto su cui ci stiamo incartando, tutti, è proprio che ormai non riusciamo più a riconoscere o a credere nella buona fede. Quella fiducia per cui si sapeva di poter scherzare o ridere di qualcosa proprio perché si era certi già di essere tra persone civili e dunque in quella battuta non vedevamo discriminazione, ma descrizione degli inevitabili aspetti buffi o ridicoli della nostra vita.
Lo stesso meccanismo sciocco per cui un napoletano può parlare male di Napoli, ma se lo fa uno di Caserta diventa un insulto mortale: il processo alle intenzioni più che a quanto si dice. Per questa conversazione mi ero preparato una serie di domande che temevo avrebbe trovato avvilenti – nulla può essere avvilente come un autore di satira costretto a spiegare cos’è la satira e quali ne sono i limiti cà nun ce sta nisciuno limite – dovrebbe valere come risposta anche in questo caso per chiudere la questione.
Ma parlare di limiti alla propria espressività non può, ormai, che portare inevitabilmente a discutere di un’altra attualità. Si ripete spesso, dagli albori di internet, che anche al termine della peggiore faida online, basta aprire la porta, scendere in strada, d’estate in spiaggia, e accorgersi che di quella questione, fuori, non interessa davvero niente a nessuno. Nel bene e nel male. Perché significa anche che, nella realtà, i veri irradiatori della discriminazione non vengono neppure scalfiti dalle nostre chiacchiere, spesso, poco più che un esercizio oratorio e retorico per gli ego e per occupare il tempo. E molto probabilmente la pandemia ha perfino accresciuto lo spazio che separa il mondo dei corpi dal mondo, molto diverso, dei pensieri su cui ci arrovelliamo online.
Ce l’hanno con i pannolini Pampers perché osano rivolgersi alle mamme scrivendo una cosa tipo «mamme, comprate questo pannolino per i vostri bambini», invece di rivolgersi a un genitore neutro.
Pure questi sono pazzi, vai a dire “mamme” sui pannolini, come se i figli li facessero le mamme, ma che siamo primitivi? Ancora con queste idee…
Pure il tizio che ancora urla nei paesi «donne, è arrivato l’arrotino».
Quello lo linciano se lo trovano. Ti ricordi le carte da poker coi ricercati che c’erano ai tempi di Saddam? Pure questo movimento, chiamiamolo il movimento degli asterischi, c’ha le sue carte dei ricercati e il primo è lui. C’ha una taglia da cinque milioni di euro sulla testa.
Si cammina sulle uova per tutto, ma, intanto, del coronavirus si può ridere. Nonostante i milioni di contagiati e le migliaia di morti.
Non solo si può, ma si deve scherzare. Sul coronavirus, sulle nostre paure, su tutto ciò che ci terrorizza. Sulla morte si deve scherzare perché è un esorcismo e non una mancanza di rispetto per i morti. Anche io mi sono trovato davanti a questo imbarazzo e a questo pudore, ma credo che chi fa satira deve affondare la lama. O quantomeno alzare la testa e non chinarla. Perché ridere è uno sberleffo che si fa alla paura e alla morte.
Quando ci fu l’11 settembre non fu immediato trasformare il crollo delle torri in un tema di satira.
In effetti è vero. E stavolta i morti sono anche molti di più… ma mi è sembrato da subito che non volessimo stare muti. Mi ha sorpreso, come mi capita spesso nella vita, la reazione dell’Italia. Si sono messi a cantare sui balconi quando io immaginavo di vedere le molotov dai balconi. Forse siamo più violenti verbalmente di quanto poi lo siamo fisicamente. Certo, ci sono le notizie tremende di aggressioni ai gay, agli stranieri, ai rom, ma presi in massa, forse, siamo meno violenti di quanto ci immaginiamo. Poi è anche vero che Salvini è al 30 per cento e allora pensi: chi cazzo erano quelli sui balconi?
Torniamo a un punto molto dibattuto. Spesso la vera discriminazione, quella che non passa sui social, finisce in secondo piano.
Quello che fanno con gli asterischi a me sembrano questioni di lana caprina rispetto alla battaglia vera contro le discriminazioni. Ma posso sbagliarmi, magari sono cose importantissime, eh, perché la battaglia passa anche da lì. Ma io vengo da un mondo e da un’esperienza personale per cui so perfettamente che quello che mi viene contestato come scorretto, io non lo sento scorretto.
Tipo la blackface di Totò in Tototruffa.
Mi conosco, lo so che non sono razzista se Totò truccato mi fa ridere. Perché dobbiamo accusare di razzismo per cose così? Quel Totò negro veniva rappresentato in un dato contesto storico, privo di quella sensibilità. Se qualcuno rifacesse quel Totò oggi lo troverei detestabile. L’ho capito che la blackface è un problema. E sono d’accordo. Ma, una volta compreso che una cosa è un problema, dobbiamo guardare avanti. Non cominciare con le sedute di abiura. Come ha dovuto fare il primo ministro canadese, Trudeau, o anche altri. Bisogna accettare l’errore. Se una volta una cosa non era percepita come errore dovrebbe essere sufficiente per comprenderla, non dico giustificarla, e andare avanti.
Si creano dei cortocircuiti per cui Varoufakis commenta un fermo immagine di una puntata di Ciao Darwin e chiede una ribellione mondiale di Black Lives Matter contro le reti Mediaset.
Ho visto, per quella sfida degli italiani contro gli stranieri… Io capisco che quella cosa può apparire scorretta, ma la soluzione davvero è impiccare Bonolis a testa in giù? Secondo me anche Bonolis ci avrà ripensato e si sarà domandato: «Ma perché? Quando l’abbiamo fatto non eravamo tutti complici? Non è che quella ragazza nera è stata chiusa lì dentro contro la sua volontà». Qualcuno potrà dire che è stata strumentalizzata, d’accordo, ma il gioco di Ciao Darwin è noto, è quello. Puoi dire che è grossolano, che è trash, va bene. Vuoi criticarlo, va bene. Ma sai dove non mi convinci? Quando dici che è un programma di white power contro i neri. Lì non ti seguo più.
L’obiezione è che sei un maschio bianco.
Sono un maschio bianco anziano, questo è il limite. Sono un appassionato di letteratura di genere, e tra le altre cose mi piacciono molto i romanzi sui vampiri. Ma una cosa che non mi convince dei vampiri è che loro vivano così a lungo riuscendo a comprendere il tempo in cui vivono. Io già adesso, a 55 anni, bestemmio la qualunque. Non so cos’è Tiktok e non lo voglio neanche capire, pure con Telegram stiamo lì. Per me un vampiro che arriva a 120 anni pure se fuori rimane giovane, dentro sarà confuso e scorretto su tutto. Si ammazza, si ficca da solo il paletto nel cuore. Perché comincia a non capire nulla del mondo in cui vive. Come succede a me. Non sa più se una cosa la può dire o non la può dire, cos’è ’sta musica? Mi fa schifo e non la capisco. Pensa uno che è cresciuto con Bach e poi si ritrova con Anna Tatangelo. Secondo me tutta la mitologia del vampiro non regge su questo punto. Anche il vampiro, arrivato a 55 anni, si rompe il cazzo.
Pensi che, invece, i giovani si trovino meglio?
Forse chi ha raggiungo una certa età può sentirsi più libero, soprattutto se ha ottenuto una posizione per cui si sente garantito. Il giovane che deve farsi conoscere, che ha bisogno di essere accettato tende a conformarsi e magari, adesso, comincia anche ad aver paura di parlare. E, poi, vedi delle persone che, d’improvviso, si avvelenano per una causa di cui fino a un momento prima non gliene fregava nulla. Ma questo non succede solo ai giovani, pure ai vecchi. Vedo certi dell’età mia, anche persone pubbliche, note, le ascolti e pensi: «Ma quando mai hai avuto questa vena?». Ma perché da un momento all’altro? Lo fanno perché si deve faticare.
Forse c’è anche una gratificazione nell’essere conformisti, stai meglio nel mondo. Ormai si pensa che pure le idee si replichino come i geni, non per forza le più intelligenti, ma le più utili.
Può essere. Ci vedo un forte isterismo. Chiaramente quando leggo le risposte degli attivisti del movimento pro “cancel culture” più ragionevoli e articolate capisco quello che spiegano, cioè che in questo momento di lotta, dopo anni di pestaggi sia reali che virtuali, il fuoco amico non gli serve. Perché siamo in guerra. Ma a me questa cosa spaventa. Perché il fuoco amico satirico serve, ti fa capire se pur stando nel giusto, a volte caschi nel ridicolo.
L’altra obiezione è che questo dibattito non ci riguarda: in Italia non abbiamo ancora ottenuto alcun diritto, parlare di cancel culture è inutile.
Anche su Immuni, ti ricordi? C’era la mamma col bambino in braccio e il papà che lavorava, un’immagine pure stucchevole se vuoi. Però noi abbiamo pure una tradizione che non è quella del Ku Klux Klan, ma dell’Italia mammona. È il nostro immaginario. Non possiamo buttare via tutto. Ci vuole la capacità di comprendere che in quel simbolo lì non c’è niente di offensivo, è iconografia, la Madonna col bimbo Gesù, è un simbolo. Allora tocca rifare tutti i quadri con San Giuseppe che allatta? E poi non è che i bambini vedono quell’immagine e pensano: ah, ma allora le mamme possono solo fare i bambini e mute! Le mamme, nella mia esperienza, mia cognate, amiche, eccetera, donne evolute, quando gli nasce un bambino, vogliono tenerlo in braccio mica perché sono costrette, perché lo vogliono, se lo odorano, se m’avvicino per prenderlo sbiancano. Magari so’ io. Non lo so, ho paura a parlare.
Finisce che un grafico che ha realizzato un’immagine, magari in maniera sciatta, viene spacciato come complice morale dei femminicidi.
Magari neanche sciatto, magari non s’è posto proprio il problema, l’ha fatto in tutta sincerità, è una persona evoluta che ha voluto mettere una dolcezza in quelle immagini. Ma poi non è altrettanto ridicolo riequilibrare? Il padre col bambino? Allora devi fare un figlio a testa. Non è che per riequilibrare puoi scrivere sugli assorbenti per “uomo, donna, chi li vuole li usi”, poi magari fare pure quelli al gusto tabacco.
Abbiamo parlato moltissimo della grafica e pochissimo di quanto Immuni sia, a conti fatti, inutile. Doveva essere una delle principali risorse per evitare una seconda ondata.
Sì, non serve per prevenire la pandemia, però quelli che l’hanno scaricato, grazie alla modifica della mamma senza bimbo in braccio, non sono stati influenzati dal patriarcato.
Però dovevamo parlare di satira e coronavirus: che ne dici del titolo «Giorgio Covid» apparso sull’editoriale di Marco Travaglio?
Il titolo si può fare, ma se lo metti in copertina sul Male, un giornale satirico. Voglio dire che se il contenitore è riconoscibile va bene. Perché nel territorio della satira vale tutto: è Carnevale. Ma se non ho i confini, se chi legge non è sicuro che quella sia satira allora il gioco diventa dannoso. Perché la satira può diventare lo schermo per legnare qualcuno con altri scopi. E nascondersi con la satira, perfino per evitare una denuncia. Invece bisogna far capire a chi legge che quanto si legge è satira.
La velocità con cui siamo passati dalla solidarietà totale a Charlie Hebdo al voler sindacare su tutto mi preoccupa, ma, spesso, anche mi tranquillizza. Perché con altrettanta velocità chissà dove andremo.
Voglio raccontare una cosa per farti capire quanto stiamo inguaiati con la satira. Per un po’ eravamo tutti Je suis Charlie… invece ricordi? Quando a Charlie Hebdo hanno fatto la vignetta sul terremoto con noi sotto come gli strati delle lasagne? Ci siamo fatti venire il veleno. Dopo crolla il ponte di Genova, fanno la vignetta, e ci viene il veleno di nuovo. Una trasmissione francese satirica ci fa una battuta sulla pizza con lo sputo al Covid e noi addirittura smuoviamo l’ambasciatore del governo francese. Quando per una questione di satira tu smuovi l’ambasciatore e ne fai una questione istituzionale, ti metti nello stesso campo di quelli che hanno sparato. Non dico che sei uguale, ovviamente, ma l’hai portata su quel terreno lì.
Poi, per fare la pace, Di Maio e l’ambasciatore francese sono andati a mangiare la pizza da Sorbillo.
Come qualcuno all’estero dice dell’Italia “pizza e mandolino” ci arrabbiamo, ma appena ci toccano la pizza impazziamo davvero. Al prossimo che farà una battuta sul mandolino poi toccherà mandare l’ambasciatore a suonare con Di Maio.
Sarebbe una bella scena. Speriamo. Le vignette o la battuta sulla pizza al Covid sono le tipiche cose che suscitano la vibrante protesta del Codacons.
Calenda è stato dirigente d’azienda, ministro, ma la cosa più grande che ha fatto è stato postare quel video su Twitter «oggi gliele canto al Codacons». Tipo film di Soderbergh, quando lei parte e dice: «Da oggi cerco l’acqua col cromo VI». È una battaglia che vedo persa in partenza perché io immagino le riunioni del Codacons come Guzzanti con la uallera d’oro: «Spostare il Campidoglio da qui a qui, domani Ascoli pioggia». Invece Calenda si lancia a muso duro e, intanto, il Presidente gli risponde cose a caso.
Tu ti spieghi perché Calenda o JK Rowling, per tornare al discorso di prima, passino la giornata a rispondere?
Io nei flame non ci entro perché, in passato, ho amministrato forum e ho una lunga esperienza su internet. Ho assistito a una guerra tra Mac e Pc con gente che diceva: «So dove abiti, ti aspetto sotto casa, ho rintracciato il tuo IP». Io blocco. Perché ti portano via il sangue una goccia alla volta. Ma per Calenda e simili rispondere a tutti deve essere una roba guascona, tipo Cyrano. Sanno di essere superiori al loro interlocutore, quello becero, e allora lo smerdano pubblicamente. Sai come dice il demone Pazuzu nell’Esorcista quando gli chiedono: «Fallo di nuovo»? Lui risponde «sarebbe un’inutile dimostrazione di potere». Loro non hanno l’arroganza di Pazuzu. Invece dovrebbero dire: «Con te non ci litigo più perché non lo meriti».