Ho una lettura da consigliare a quelli che il Mes mai e poi mai, che il Mes è inadeguato e pericoloso e «ipoteca il futuro degli italiani», quelli che il Mes è una trappola dei tedeschi e finiamo come la Grecia, e caso mai lo chieda prima la Spagna, vai avanti tu che a me viene da ridere. A chi di loro è in grado di leggere suggerisco di procurarsi un piccolo libro, “Tu porterai il tuo cuore. Lettere dal fronte Covid-19” (Antonio Delfino Editore).
Costa 9 euro e i proventi vanno a beneficio di Medici senza frontiere. Raccoglie i messaggi che si sono scambiati medici e infermieri di un reparto italiano di terapia intensiva nelle fasi più sanguinose della pandemia.
Una specie di diario di bordo che mette a nudo senza censure i retroscena di una battaglia troppo spesso imbrattata dalla retorica: dove non ci sono angeli o eroi, ma persone normalissime, con tutte le loro fragilità, che lottano per la sopravvivenza propria e dei pazienti. E che sui fondi europei non ci sputerebbero sopra, anzi.
L’autore è Giuseppe Nardi, primario dell’Unità Operativa Anestesia e Rianimazione degli ospedali di Rimini e Riccione. Un medico in prima linea con un curriculum d’eccezione, tre anni in Africa come volontario dopo la laurea, specialista in medicina tropicale, fondatore dell’Elisoccorso in Friuli, poi a lungo al San Camillo di Roma, autore di molti testi scientifici. E adesso, l’ultima inaspettata corvée, la più dura di tutte, proprio sul limitare della pensione.
Tutto comincia con un messaggio notturno sulla “chat” del reparto, alle 3,49 del 23 febbraio: «Abbiamo un problema», scrive, come un astronauta dell’Apollo 13, la dottoressa Laura B. «Il paziente che abbiamo messo in ECMO (ossigenazione extracorporea) giovedì a Crema è positivo per coronavirus. Mi hanno avvertito adesso, dobbiamo decidere come muoverci».
Laura è stata mandata a Monza con altri colleghi per uno stage sull’utilizzo della speciale apparecchiatura che serve a ossigenare il sangue e sostenere la circolazione quando cuore e polmoni non funzionano più. Da lì si sono spostati a Crema per un caso di polmonite particolarmente grave.
E nessuno di loro ha preso precauzioni particolari. Qualche giorno prima il “paziente uno” è stato ricoverato all’ospedale di Codogno. La bomba sta per esplodere.
Eppure, più o meno nelle stesse ore, la dottoressa Maria Rita Gismondo, dell’ospedale Sacco di Milano, scrive sulla sua pagina Facebook che la nuova infezione è «appena più seria di un’influenza» (per il suo raro intuito, le daranno una rubrica sul Fatto Quotidiano). E il noto sputasentenze Andrea Scanzi in un video inveisce con la consueta eleganza contro il «delirio collettivo» sulla pandemia, che a suo dire «non è una malattia mortale porca puttana di una troia ladra» (ora è appena uscito un suo puntuto libello dal titolo “I cazzari del virus”. Ma non è autobiografico).
I medici di Rimini sono l’esatto opposto dei cazzari. L’allarme lanciato da Laura viene preso molto sul serio e fa partire una mobilitazione istantanea.
Ricorda Nardi: «Ormai avevamo capito che l’onda sarebbe arrivata e in poche ore tutta la nostra vita lavorativa è cambiata. L’Ospedale è scattato come una molla…di colpo le linee di comando si sono accorciate, ad ogni proposta è seguita la rapida messa in atto, la burocrazia è morta in pochi minuti».
Un’efficienza sorprendente per una struttura pubblica. Si liberano spazi per l’intensiva, si istruisce il personale, si cercano affannosamente mascherine, camici e tute. «Se l’allarme fosse partito anche solo il giorno dopo non avremmo fatto in tempo a procurarci quello che serviva, in un mercato impazzito dove tutti cercavano le stesse cose».
E tra i colleghi c’è chi ironizza: dove credete di stare? Nel deserto dei tartari? Combattete un nemico immaginario? Poi il nemico arriva, eccome, e va ben oltre il peggiore degli incubi. Le corsie traboccano di malati. Non ci sono più orari, né weekend, né ferie per nessuno.
Si lavora fino allo sfinimento. Vestizione, svestizione, disinfezione, camice impermeabile, cuffia, calzari. Togliere e mettere occhiali, guanti, mascherina. Stando ben attenti a ogni gesto, perché la minima distrazione può costare la vita.
Nardi confessa di aver avuto paura. Lui che da giovane in Zimbabwe curava i malati di Tbc senza mascherina, e intorno infuriava l’epidemia di Aids, e non c’erano ancora i farmaci anti-retrovirali, questa volta si arrende a un sentimento poco familiare. «Ho odiato la mia paura», dice. La tensione è altissima.
Molti piangono a fine turno, sopraffatti da tanta sofferenza. Ma c’è chi piange anche di gioia. O di riconoscenza verso la collega esperta per i suoi insegnamenti. Perché la squadra non è mai stata così motivata e coesa. Spariscono rivalità e invidie, si rema tutti insieme.
«Il Covid – scrive il primario – ha trasformato un popolo di individualisti in una Comunità…Ero troppo giovane nei giorni dell’alluvione di Firenze, ma era questa la sensazione quando scavavamo tra le macerie dopo il terremoto in Friuli: tragedia e umanità».
Poi però ci si deve misurare coi dilemmi etici. Il 10 marzo Francesca, una dottoressa dell’equipe, racconta alla chat il caso di un paziente ultrasettantenne, con broncopneumopatia importante e gravi complicazioni.
Gli danno solo una mascherina a ossigeno: «Visto il quadro polmonare se si fosse aggravato non avrebbe beneficiato della ventilazione artificiale… Oggi è morto. La figlia ha chiesto: ma perché non lo hanno preso in Rianimazione? E loro hanno risposto che sarebbe comunque morto attaccato a un ventilatore. Tutto bene. Tutto giusto. Pensate che io mi senta meglio? Sarà anche la medicina delle catastrofi ma siamo davvero a questo punto di risorse?».
Le risponde Laura: «Cosa sia giusto e cosa no, credo che nessuno di noi possa dirlo. Possiamo fare quello che sembra più razionale, non giusto. La morte di una persona è sempre ingiusta». Un altro medico è ancora più tranchant: «Una decisione di questo tipo è contraria alla Costituzione e al nostro giuramento».
Il dramma è, come spiega Nardi, che nei casi gravi di Covid il ventilatore è necessario per almeno quindici giorni. E il più delle volte (90% dei casi in Cina) il paziente non ce la fa.
Intanto però la macchina è stata impegnata per lui invece di aiutare altri, magari più giovani, magari con figli e un futuro davanti, a respirare e guarire. Perché di ventilatori non ce ne sono abbastanza: anche in Emilia-Romagna, una delle regioni più forti e meglio organizzate, figurarsi nelle aree più disastrate del Sud. È una scelta tremenda.
Come dice il documento di etica clinica: «In un contesto di grave carenza delle risorse sanitarie, si deve puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la maggior speranza di vita».
Avete capito perché abbiamo bisogno dei 36 miliardi a tasso zero di quegli strozzini di Bruxelles? Perché quando (se) arriverà la seconda ondata non ci facciamo più trovare in una situazione di “grave carenza delle risorse sanitarie”, perché ci siano respiratori per tutti e i medici non siano costretti a scegliere a chi dare la precedenza secondo la “speranza di vita”. Old lives matter.
Perché non ci siano più divari abissali nella sanità tra regione e regione. E soprattutto perché i positivi siano intercettati e curati prima di arrivare in ospedale, da una solida rete di medici di base.
Non possiamo concederci il lusso di aspettare che si compia il “percorso politico” del pieveloce Conte: quei crediti dobbiamo chiederli oggi stesso, che già si è fatto tardi.
Gli irriducibili No-Mes pretenderebbero soldi a fondo perduto, da scialacquare magari in operazioni tipo Quota 100: ma a che serve andare in pensione un anno o due prima, se poi finisci al pronto soccorso di Alzano Lombardo e non ne esci più? Sono questa gente, non gli eurocrati, a ipotecare il futuro degli italiani.