Sai le risate che si farebbe, il professor Giorello. Mi pare di vederlo, curvo sui quotidiani di oggi (rigorosamente cartacei, come piacevano a lui) a leggere i suoi necrologi con quel sorriso affilato.
Dal tweet del premier Conte apprenderebbe, per esempio, di essere «deceduto», che come pensatore non è stato «mai banale» e che le sue pagine sono «dense».
Una conferma in più di quanto scriveva nell’ultimo articolo, il 4 giugno, a proposito dei rischi di uno «stato medico che vada, in nome della necessità, ben oltre il rispetto del paziente» e delle responsabilità dei nostri attuali politici, «pensando ai quali – confessava – non mi sento troppo ottimista». E non aveva ancora visto gli Stati Generali.
Così l’omicida seriale che ci ha tenuto segregati per tre mesi si porta via un altro splendido Boomer con più meriti che patologie pregresse, un eterno ragazzo che di contagioso aveva soprattutto la simpatia e la scintillante intelligenza.
Ed è un ben triste paradosso che se ne vada, lui paladino della scienza, proprio nell’anno che della scienza ha segnato insieme l’apoteosi e la disfatta, la dittatura dei virologi e l’avanzata di un virus che sbaraglia tutte le armi della medicina moderna.
Certo, nessuno più di Giorello era un candidato ideale al Covid, con la sua bulimia di contatti umani e dialoghi ravvicinati e la sua allergia a webinar, videochiamate e altre tecnologie di distanziamento. Giulio vedeva nella scienza un’avventura dello spirito, più che una fucina di attrezzi utili alla vita quotidiana.
Si era convertito tardi al computer e al cellulare, non aveva mai imparato ad andare in bicicletta e non guidava l’auto. Ma aveva una mobilità prodigiosa. Con quelle sue gambe da trampoliere era capace di saltare in un giorno da un seminario a Bolzano alla presentazione di un libro a Reggio Calabria.
Era generoso, non si negava a nessuno, neppure all’ultimo degli studenti. E amava il confronto e la circolazione delle idee al di sopra di ogni cosa. Anche della salute e della vita.
Ricordo il nostro primo incontro, nel pub King’s Arms di Oxford, a due passi dalla Bodleian Library. Era l’estate del 1985, e Mondadori stava per pubblicare il suo libro “Lo spettro e il libertino”, una cavalcata tra teologia, matematica e libero pensiero con la colonna sonora del “Don Giovanni” di Mozart.
All’epoca Giorello era uno degli astri nascenti dell’accademia italiana, nel ’78 aveva ereditato, a soli 33 anni, la cattedra di filosofia della scienza dal suo maestro Ludovico Geymonat.
Aveva fatto molto rumore la sua prefazione, scritta a quattro mani con Marco Mondadori, alla prima edizione italiana del “Saggio sulla libertà” di John Stuart Mill (il Saggiatore, 1981): un classico del pensiero liberale che andava a cozzare frontalmente con le idee allora predominanti nella cultura di sinistra, di cui lo stesso Geymonat era un autorevole esponente.
«Il conflitto, il dissenso tra diversi punti di vista sono garanzie di base di una società aperta», scrivevano tra l’altro i due giovani filosofi.
E ancora: «La rivoluzione copernicana per la sinistra consiste…nel superamento del “dogma dei sistemi centrati” e nel riconoscimento del sistema sociale come un sistema di interazioni tra gruppi (o individui) con “funzioni di utilità” diverse tra cui nessuna rappresenta gli interessi universali dell’intera umanità». In altre parole, addio alla lotta di classe, alla dittatura del proletariato o anche solo all’egemonia della classe operaia.
E concludevano con una citazione dello stesso Stuart Mill: «I mali cominciano quando il governo, invece di fare appello alle attività, ai poteri di singoli e di associazioni, si sostituisce a essi…Uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini perché possano essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a fini benefici, scoprirà che con dei piccoli uomini non si possono compiere cose veramente grandi; e che la perfezione meccanica cui ha tutto sacrificato alla fine non gli servirà a nulla, perché mancherà la forza vitale che, per far funzionare meglio la macchina, ha preferito bandire».
Mentre altri filosofi di sinistra in quel momento abbandonavano Marx per Heidegger o Nietzsche, rimpiazzando la rivoluzione col nichilismo, Giorello (col suo sodale Mondadori) sceglieva la sponda liberale e riformista.
Figurarsi quanto ne avrà gioito Geymonat, che ancora nel 1989, all’indomani della caduta del muro, mi diceva senza esitazioni in un’intervista per il Corriere: «il comunismo è più vivo che mai». E prontamente il Cuore di Michele Serra titolava: «Geymonat: il comunismo è vivo. E sono vivi anche Cavour, Mazzini e Garibaldi».
Quel giorno nel pub di Oxford, davanti a un boccale di birra, parlammo a lungo di Galileo e di Newton, di verità teologiche e di astrazioni matematiche, di mondi immaginari e di racconti di fantasmi.
Alla fine gli chiesi di darmi una mano alla terza pagina del Corriere della Sera, che mi era stata da poco affidata dal direttore Piero Ostellino.
Una pagina prestigiosa, ma un po’ imbalsamata e troppo letteraria, tutta Citati e Macchia. La scienza era confinata in un inserto settimanale di ottima fattura, ma di taglio popolare, dedicato per lo più ad archeologia e imprese spaziali. C’era bisogno di un’iniezione di cultura scientifica, di contemporaneità, di idee innovative. Giulio aderì con entusiasmo.
Mi mandava elzeviri scritti a macchina spazio due, disseminati di cancellazioni e sbianchettature. Li consegnava il padre in bicicletta, alla portineria di via Solferino, perché lui non si fidava dei nostri fattorini e non usava il fax.
Erano pezzi straordinari ma a volte complessi, zeppi di citazioni e di virgolette. Io continuavo a dirgli: «Giulio, non potresti togliere qualche virgoletta? Per il lettore è una specie di corsa a ostacoli».
Ben presto non ebbe più bisogno dei miei consigli di caporedattore, era un divulgatore di grande talento, e la sua firma diventò uno dei pilastri della cultura del Corriere. La mia direzione a un certo punto finì, ma restammo amici.
Quante serate passate a parlare di patrioti irlandesi (quelli dell’Ira, per i quali aveva un’ammirazione sviscerata e da me non condivisa), della guerra civile inglese del Seicento e di Oliver Cromwell, eroe del parlamentarismo, altro suo idolo (a un certo punto chiamò perfino Oliver uno dei suoi amatissimi gatti), ma anche di Topolino e Tex Willer, che lui trattava con la stessa serietà dei saggi di Feyerabend.
Giulio era una compagnia meravigliosa. Un inesauribile creatore di calembour, i canili tv, gli errori di stumpa, il presidente del coniglio. Un vero anticonformista, ma non per posa, per istinto.
Un eretico nato, un anarchico ostile a tutti i dogmi, politici, religiosi, scientifici. Sosteneva che anche tra gli scienziati si annidassero censori e ayatollah fondamentalisti, nemici della libertà di ricerca. E non sopportava gli integralisti di sinistra e i chierici del “politicamente corretto”.
Laico e ateo convinto (“Di nessuna chiesa”, è il titolo di un suo libro del 2005) era capace però di dialogare con il Cardinale Martini o con il teologo Bruno Forte e di scrivere libri insieme al cattolico Dario Antiseri, grande studioso di Popper.
Una mente ribelle, fuori dagli schemi, alleata naturale di chiunque si batta contro populismi, democrature e fanatici di ogni risma. Bastardo di un virus che ce lo ha strappato proprio adesso. Il lockdown è finito, e con esso forse anche quello “stato medico” che Giorello paventava. Ma senza di lui, ci sentiamo tutti un po’ meno liberi.