Dopo aver raccontato la figura del “Ristoratore Resistente” nel libro #mondoristorante (Edizioni Clandestine, 2018), vincitore del Premio Selezione Bancarella Cucina 2019, l’autore torna a esplorare il mondo della ristorazione stilando una sorta di “manifesto” in dieci punti per stimolare (e supportare) i professionisti del settore a ripensare quello che a suo avviso è molto più di un mestiere, è una vera e propria vocazione.
Farinotti nel libro auspica una nuova alleanza fra ristoratore e cliente che possa generare un circuito virtuoso, un’alleanza basata sulla qualità senza compromessi e su nuove soluzioni che hanno lo scopo precipuo di rendere più sostenibile la ristorazione del futuro, per un dovere di responsabilità verso se stessa, i clienti e l’ambiente.
Solo così, secondo l’autore, il ristorante può tornare a essere quel luogo di cultura che pone al centro il patrimonio esperienziale del cliente e il suo benessere: ciò può realizzarsi solo ed esclusivamente attraverso una proposta gastronomica di qualità e un comportamento etico nella scelta dei fornitori.
Leggiamo dall’introduzione:
In tempo di pandemia, durante l’estenuante lockdown, si è dibattuto senza sosta sulla necessità di riaprire i ristoranti il prima possibile ma troppo timidamente si è discusso, invece, di come cambiare il modo di mangiare in questi stessi ristoranti. Concentrati quasi esclusivamente sulla crisi economica incombente, i protagonisti del settore hanno mancato di dare vita a un dibattito concreto sugli orizzonti e sulle nuove possibilità che questa epoca senza precedenti può offrire. La ristorazione d’oggi ha infatti di fronte a sé, paradossalmente, una grande opportunità. L’analisi del mio precedente libro #mondoristorante (Edizioni Clandestine, 2018) fotografa d’altra parte una ristorazione già in grave crisi prima della pandemia, in caduta libera da circa un decennio. Avverte di una saturazione irreversibile nel settore e di una ipertrofia catabolica del mercato, aggravata dal consolidarsi del contenitore fagocitante del sistema media e dal degrado culturale del mondo ristorante, caduto al servizio dell’industria del cibo omologante e svilente. Analizza un settore in cui si registra la forte ascesa della banda degli improvvisati, rappresentata da migliaia di nuovi imprenditori (grandi e piccoli) provenienti da altri settori e armati perlopiù di ingenuo e disorganizzato entusiasmo, quando non di capitali di dubbia provenienza, pronti a essere dilapidati senza scrupoli, sacrificando preziose risorse umane sull’altare di una categoria priva di protezione e senza regole.
Racconta di un settore in cui l’orizzontalità e la replicazione/imitazione seriale dei progetti della new gen imprenditoriale ha lentamente corroso la verticalità qualitativa a vantaggio del business basato sulla percezione e non sulla sostanza.
In questo senso, e in virtù della disgrazia pandemica, oggi più che mai la ristorazione si trova di fronte a un bivio capitale: da una parte può usare il tempo sospeso, che si protrarrà a lungo, per unirsi in proteste politiche, farsi prendere dal panico cedendo all’indebitamento strategico proposto dal governo, abbandonandosi a un senso di disperazione sproporzionato (e qui, diamo per scontato che ne avrebbe tutte le ragioni per come la categoria sia stata maltrattata dai provvedimenti in tempo di covid-19 e ancor prima dalle legislature più o meno recenti). Potrà poi continuare a consolidare quelle associazioni tese a promuovere e sostenere troppo spesso solamente i di- ritti di categoria, ma di rado impegnate a richiamare gli esercenti ai doveri etici e qualitativi del proprio mandato (che disgraziatamente è considerato da molti, operatori o clienti che siano, un mestiere qualsiasi per guadagnarsi da vivere o, peggio, quale mera opportunità per arricchirsi: errore filosofico di base, questo, imperdonabile).
Potrà continuare infine, la ristorazione, a lamentare ingiustizie (che pur sussistono), suffragando all’infinito i propri alibi riguardo al tempo che le è stato tolto, ai tavoli che le sono stati sottratti e al fatturato di cui è stata usurpata.
Dall’altra parte invece, la ristorazione potrebbe considerare attivamente il lockdown prolungato e i mesi/anni a seguire come un’irripetibile opportunità. Chissà quante volte, infatti, è capitato a ciascuno di doversi o volersi prendere delle pause necessarie a rivalutare, capovolgere, reindirizzare la propria strada. C’era bisogno di tempo e, quasi sempre, il tempo non c’è stato.
Ora invece è possibile sfruttare questa crisi per comprendere e accettare (in realtà c’è da augurarsi che sia così) che niente potrà essere come prima. Invece di incallirsi a denunciare le prevaricazioni alla libertà di esercizio, la ristorazione può scegliere di aprirsi a una serie di opportunità rifondanti che possono essere colte oggi con relativa facilità. Riprendiamo, per esempio, il concetto di etica senza compromessi di #mondoristorante e pensiamo finalmente a un menu esclusivamente del giorno, costruito su cibi freschi, da produttori locali, stagionale. Immaginiamo ristoranti senza più freezer e scevri di quelle orribili dispense colme di cibi conservati e ingredienti industriali.
La ristorazione, invece di terrorizzarsi per i metri che ha dovuto concedere al distanziamento sociale, potrebbe ad esempio rendersi conto del fatto che fosse già da prima una buona idea ridurre il numero dei coperti al fine di offrire un servizio migliore al cliente. Per accoglierlo come a casa. Per avvalorare i prezzi del menu con la vendita di un’esperienza a tutti gli effetti. Per attribuire un senso più profondo al denaro speso dal cliente.
Luca Farinotti, Reinstaurant – Decalogo pratico per una nuova ristorazione italiana, Reverdito