Le parole molto belle hanno un problema: ti viene da usarle sempre. E mansplaining è una parola molto bella. L’hanno inventata alcuni internettiani americani (i migliori a inventarsi le parole), che commentavano un articolo della scrittrice Rebecca Solnit del 2008, intitolato “Uomini che spiegano le cose”.
Dopo essere diventata virale nei blog femministi, nel 2010 è entrata nelle parole dell’anno del New York Times: «Un mansplainer», scrive il quotidiano, «è un uomo che spiega o dà la sua opinione su tutto, specie a una donna, persino quando non sa niente». Corrado Augias doveva consigliare un libro, è finito “mansplainer”. E non ha manco explained nulla.
I fatti su Twitter. Finale dello Strega 2020, giovedì sera. Evento con le poltrone rosse, le colonne di marmo e il conduttore maschio. Il conduttore maschio liquida sbrigativamente una concorrente femmina che sta intervistando (Valeria Parrella), perché adesso deve «parlare di Metoo con Corrado Augias». Lei si incazza e sorride: «E lei ne vuole parlare con Augias? Auguri…». Video di 30 secondi virale, hashtag in trending topic, accuse di mansplaining, scuse del conduttore.
I fatti. Finale dello Strega 2020, giovedì sera. Evento con le potrone rosse, le colonne di marmo, ecc… Il conduttore intervista a turno, per pochissimi minuti e su temi che partono dai rispettivi libri, i cinque finalisti dello Strega.
Per tutta la puntata si avvale delle incursioni del co-conduttore Corrado Augias, chiamato a consigliare libri dedicati ai fatti dei primi 20 anni del Duemila (gli attentati dell’11 settembre, il Coronavirus, il Metoo). In scaletta, uno dei suoi tre interventi è previsto dopo quello della Parrella. E no, non spiega il Metoo.
Come da suo ruolo, consiglia prima un romanzo sulla pandemia e poi uno sulla condizione delle donne (Il racconto dell’ancella, peraltro uno dei libri amati da molte femministe). Con quella voce calma che fa venire voglia di svaligiare una libreria, il conduttore più rispettoso della Rai si permette di dire anche che Valeria Parrella non ha «mica tanto ragione. Ci sono dei problemi sociali grandi che investono l’intera collettività. E l’intera collettività ha diritto e competenza a parlarne», perché la presenza in società di stupratori e di eventuali sistemi che agevolano, legittimano, istigano gli stupri, è un problema che sta a cuore a qualsiasi persona di buon senso, mica solo agli esponenti della categoria più colpita da quel sistema.
E perché la competenza non si basa esclusivamente sull’identità. «Allora che diritto hanno due persone che si occupano di libri di parlare dei minatori del Sulcis?», chiede retorico.
La domanda si presta a facili imitazioni. Che diritto ha il torinese Gian Carlo Caselli a parlare di mafia non essendo siciliano? Quale ne ha Angela Merkel a parlare del debito greco essendo tedesca? Quale tutti noi a parlare di migrazione non essendo migranti? Quale i politici etero a discutere leggi sull’omofobia?
«Il mansplaining è quella cosa per cui un uomo spiega qualcosa di cui non sa niente a una donna che invece la sa benissimo», sintetizza Michela Murgia su Twitter. E pazienza se a ben vedere non c’era un uomo che ha spiegato qualcosa (Augias non l’ha fatto), di cui non sa niente (non lo sappiamo) a una donna (non c’era) che invece la sa benissimo.
È un problema millenario, e serio, il mansplaining. Complici le discriminazioni che hanno impedito e impediscono alle donne una maggiore partecipazione alla vita sociale e politica, ci sono uomini che hanno preteso e pretendono di sapere e decidere con fare paternalistico gli aspetti della vita delle donne, senza approfondire o chiedere la loro opinione. Il giornale americano The Atlantic è andato a rispolverare i suoi archivi e ha ritrovato un articolo che rappresenta un chiaro esempio di mansplaining.
È un editoriale del 1903 scritto da un teologo americano. Titolo: «Perché le donne non vogliono votare». Svolgimento: molte donne silenziose non vogliono il suffragio universale, perché rivoluzionerebbe la società. Frase cult. «Per queste donne contrarie al voto, che stanno in silenzio a casa, io parlo».
Ma la parola, come tutte quelle belle, inizia a essere usata un po’ per tutto: per i bianchi che vogliono spiegare qualcosa a un nero (Whitesplaining) e per quelli che vogliono dire la loro sul Metoo. Esemplare il caso di “Damonsplaining”.
Nel 2017, nel pieno delle accuse a Weinstein, il povero Matt Damon dice una cosa scontata pure per gli studenti del primo anno di giurisprudenza: che i reati sono diversi tra loro, e persino ogni singolo reato ha un grado (vale per gli omicidi, vale anche per le molestie): «Condanniamo tutti questi atti, ma teniamo presente che c’è una differenza fra una palpata sul sedere e lo stupro o la pedofilia».
Apriti cielo. In 30 mila firmano una petizione per eliminare il suo cameo dal nuovo film Ocean’s 8 (cosa avvenuta, nonostante Matt avesse già girato tutte le scene, ma che la produzione ha assicurato non essere dovuta a quella polemica, no).
In centomila gli scrivono di ammutolirsi, accusandolo di mansplaining: «Non può capire cos’è un abuso, come fa a parlarne?», si arrabbia Minnie Driver, che altri non è che la ragazza di cui si innamora in quel capolavoro di Will Hunting. «È ora che gli uomini ascoltino e basta e non abbiano un’opinione».
Nella più ipocrita delle usanze di Hollywood, Damon chiede scusa e promette: «Terrò il becco chiuso per un po’». Tradotto: la battaglia per il Metoo, fatevela da sole. Persona ammutolita, giustizia fatta.
È la variante di genere dell’“appropriazione culturale”. Un concetto profondo, che condanna le adozioni da parte di una cultura “dominante” degli elementi di una cultura “minoritaria”, ma che negli ultimi anni si è allargato, sfociando in casi di predominanza dell’identità sul diritto morale di parola, del vissuto sul pensato.
L’ultimo caso è stato quello della scrittrice Jeanine Cummins, accusata di appropriazione culturale perché, da portoricana, si è permessa di scrivere un romanzo sulle vicende degli immigrati messicani, e poi costretta ad annullare il tour del libro in seguito alle minacce. Non conta quello che sai ma quello che sei è il parametro di giudizio secondo cui alcuni hanno bocciato, senza neanche ascoltarli, il conduttore Zanchini e Augias.
Come ha scritto The Atlantic, non è una saggissima idea, scoraggiare l’istinto umanissimo e naturale di mettersi nei panni di un’altra persona, al di là del genere, e provare a risolvere assieme a essa i problemi. E insomma, vedere l’appropriazione culturale o il mansplaining ovunque è quasi pericoloso come non vederlo per niente.
Fidatevi, sono un man che sta explaining qualcosa. Secondo i parametri più rigidi dell’identità come prerequisito per il diritto alla parola, sono titolatissimo a parlare di questa roba qua.