«È successo tutto nel giro di sei anni: prima, nel 2000, il premio Viareggio e il premio Campiello, e poi, nel 2006, il premio Strega, hanno fatto di me un vincente. Già questo è stato molto complicato, per me, da accettare – più complicato di quanto non fosse stato da ragazzo adattarmi al ruolo del perdente, e proprio perché ormai mi ero adattato a quel ruolo. Ma ciò che mi riuscì ancor più difficile accettare furono le palate di fango che i giornali (non tutti, ma molti di più dei due-tre specializzati in materia) mi riversarono addosso in quanto, per l’appunto, vincitore di premi. Roba pesante, credetemi» (Sandro Veronesi, Repubblica, maggio 2010).
Ogni programma televisivo ha quello che Malcolm Gladwell chiamerebbe il tipping point: il momento dal quale in poi tutto è declino.
Per L’Isola dei famosi fu la seconda edizione, quella del 2004, quella di cui Antonella Elia fu vincitrice morale; come fu chiaro quando la eliminarono, tornò a Milano, e nello studio televisivo l’accolse una ferale Alessia Merz accusandola d’averle augurato di morire, e Antonella pigolò «Ma io resto senza parole, io non me lo ricordo, io non voglio che tu muoia!», e tutte annuimmo fortissimo perché erano ancora tempi in cui non bisognava far finta di non sapere che, essendo femmina, a fingersi scema si va lontanissimo.
Per il premio Strega fu l’edizione 2015, quando la conduttrice intervistando gli scrittori (le interviste a gente isterica perché sa che sta per perdere o perché sa che sta per vincere sono la cosa migliore della serata dello Strega, il premio meno a sorpresa che la competitività umana abbia mai concepito) disse che non si sapeva se Elena Ferrante fosse uomo o donna; e la sventurata spalla comica intervenne: «Oppure potrebbe essere un gay», e ci fu giusto un attimo di gelo, nella diretta e nelle nostre case, ma non ci toccarono i seminari di educazione all’identità di genere distinta dall’orientamento sessuale che ci verrebbero ammollati oggi, oggi che una battuta non riuscita non è mai solo una battuta non riuscita.
Ieri sera era di nuovo il Novecento: allo Strega vinceva un ripetente (Sandro Veronesi l’aveva già vinto – nel 2006, un anno che è come se fosse Novecento, per quant’è cambiato tutto: nel 2006 non si facevano le foto col cellulare e non si raccontava la vita sui social, per dire); a Temptation Island il conduttore, in camicia da Magnum P.I. spiegava alle coppie partecipanti che le comparse sfasciafamiglie avevano tutte fatto il sierologico: insomma, potete limonare come non fosse questo dannatissimo 2020; a Techetechetè, le Kessler baciavano Lando Buzzanca, Chiambretti s’infilava nel letto della Berté, Arbore cantava Il clarinetto (era il Sanremo 1986: al Sanremo 2020 sono partite indignazioni per molto meno); il conduttore dello Strega congedava Valeria Parrella, unica donna della finale, annunciando che ora lui e Augias avrebbero parlato di cos’era cambiato col MeToo, e Parrella strabiliava come chi fino ad allora non s’era accorta che il Novecento non fosse mai finito: «E lei ne vuole parlare con Augias? Vabbè».
La partecipazione di Antonella Elia a Temptation Island faceva sperare in un caso Veronesi (la vincitrice morale di due reality a sedici anni di distanza), ma l’impressione dalla prima puntata, vista in parallelo alla serata dello Strega (un consumo che raccomando caldamente: la combinazione perfetta è il video dello Strega e l’audio di Temptation), è che questo sarà l’anno di quelli che a Bologna si chiamano maragli e a Roma burini.
La prima coppia promettente è quella di Antonio – che, appena si ritrova con una sfasciafamiglie che dice di amare gli uomini del segno del Leone, si tira su la camicia per far vedere un leone tatuato; e della sua legittima, Annamaria, che quando vede il video in cui lui fa il cretino con le sfasciafamiglie dichiarandosi l’anima d’ogni festa, sbotta: «Ma se nun te piac’ manco anna’ a balla’, strunz’».
Poi ci sono Ciavy e Valeria, lui pronto per lo Strega in quota nota di colore (ha una camicia che non sfigurerebbe addosso a Jonathan Bazzi), lei manicure insoddisfatta. Abbiamo percezioni diverse dello stesso problema: lei è convinta di non fare carriera perché lui, geloso, non vuole che lei limi le unghie agli uomini; io sono convinta non la faccia perché dice che Ciavy è molto bello, e per dirlo dev’essere davvero troppo miope per vedere le pellicine.
Mentre a Temptation Island Sofia ha una crisi di nervi perché le fanno vedere un video in cui Alessandro dice che vorrà sempre bene alla madre dei suoi figli (che non è lei), il conduttore dello Strega dice a Gianrico Carofiglio «In bocca al lupo, o sul dorso della balena, come si dice» – no, amore della tua mamma, non si dice così.
Come tutti i grandi romanzieri (cioè i grandi mitomani), Andrea a Temptation Island parla di sé in terza persona spiegando che Anna è un’eccezione: «Io non ho mai avuto una fidanzata, Andrea s’è sempre voluto divertire» (come tutti i grandi burini, dice “fidanzata” con la zeta dolce).
Mentre allo Strega la vittoria di Veronesi si consolida e gli editori cominciano a staccare i telefoni terrorizzati che ora tutti gli ex vincitori pretendano di concorrere di nuovo (gli editori degli smaniosi ottuagenari, che devono sbrigarsi a vincere il secondo, più preoccupati di quelli che hanno mezza vita davanti per rivincerlo, o che hanno una vita abbastanza soddisfacente da non fregargliene granché di rivincerlo – no, non vi regalo consonanti per dare nomi a questi profili); mentre allo Strega Bazzi in giacca di paillettes e orecchino a corno apotropaico e le unghie pittate di nero e bianco racconta l’importanza di crescere in periferia, a Temptation Sofia (cognome non pervenuto) applica la regola – show, don’t tell – dei grandi scrittori.
C’è più periferia nelle sue unghie finte così poco adatte a un posto di mare, nel corsivo tatuato sulla sua clavicola (“diventai grande in un tempo piccolo”, se ho letto bene mentre sussultava di pianto), nel suo dire «Il mio sbaglio è di non amare più Sofia» («Chi è Sofia?», chiede la Elia, ormai troppo venerata maestra per concorrere in proprio, e madre nobile delle periferiche concorrenti), c’è più romanzo in Sofia Senzacognome che in cento romanzi sul disagio da portare a un premio dopo essersi consultate con uno stylist.