Senza religioneLa repressione degli uiguri in Cina continua, nel silenzio dei Paesi musulmani

Ciò che accade nei campi di rieducazione e sterilizzazione rimane per buona parte avvolto dal mistero, anche se diverse ong hanno denunciato torture e violenze psicologiche. Additati come terroristi, persino Egitto e Turchia hanno rimpatriato alcuni esponenti della minoranza islamica

PETER PARKS / AFP

Da un paio anni l’attenzione dei media e della politica internazionale si è spostata – seppure senza continuità – sugli uiguri e sulle politiche repressive messe in campo dal governo cinese contro la minoranza musulmana della regione nord-occidentale dello Xinjiang.

Le prime notizie su ciò che stava accadendo nella provincia cinese risalgono al 2018, ma ad oggi nulla è cambiato. Anzi, le misure repressive contro gli uiguri sono peggiorate fino ad arrivare a quello che gli esperti definiscono un vero e proprio genocidio demografico. L’obiettivo: eliminare sia culturalmente che demograficamente la minoranza musulmana, nel silenzio dei Paesi islamici.


Campi di rieducazione e sterilizzazione
Secondo le accuse mosse dal 2018 ad oggi da ong, giornalisti ed esperti, il governo cinese avrebbe arrestato in maniera arbitraria e costretto a vivere in campi cosiddetti di rieducazione almeno un milione di uiguri. Molti di loro non hanno mai ricevuto accuse formali né hanno avuto diritto a un processo, ma sono comunque stati privati delle loro libertà per il semplice fatto di professare la religione musulmana. Pechino ha infatti giustificato il controllo capillare esercitato sulla regione dello Xinjiang come necessario per proteggere il Paese dal terrorismo: come denunciato da diverse ong, la Cina ha da tempo etichettato gli uiguri come terroristi a causa della loro fede.

In realtà la vera motivazione dietro le politiche repressive è da ricercare nelle spinte indipendentiste dello Xinjiang e dei suoi abitanti, che minacciano la stabilità e l’integrità della Cina. Il Partito comunista cinese (Pcc) non può permettersi che una parte della Repubblica diventi indipendente o che i suoi abitanti si rivoltino contro il potere centrale chiedendo maggiore autonomia. Il potere del Pcc si basa infatti sulla conformità della popolazione e sul relativo appiattimento delle singole identità, motivo per cui rivendicazioni su base etnica e/o religiosa non sono ben viste da Pechino.

Ciò che avviene effettivamente nei campi rimane per lo più avvolto da mistero a causa del controllo capillare sulla regione e delle difficoltà per giornalisti e attivisti di entrare in Xinjiang, ma il poco che si sa grazie a testimonianze dirette e documenti ufficiali è già abbastanza preoccupante. I detenuti sono sottoposti continuamente a violenze fisiche e psicologiche e sono costretti a rinunciare alla propria religione e cultura di appartenenza per giurare fedeltà alla Cina e al Pcc.

Di recente una nuova inchiesta dell’Associated Press ha inoltre fatto luce sulle politiche di controllo demografico messe in campo da Pechino: le donne uigure hanno dovuto assumere contraccettivi, sono state sottoposte all’inserzione forzata delle spirali intrauterine o costrette ad abortire e in alcuni casi si è arrivati fino alla sterilizzazione tramite operazione chirurgica. Simili pratiche sono state definite da diversi analisti come genocidio demografico sulla base della Convenzione per la prevenzione e punizione del crimine di genocidio delle Nazioni Unite, secondo cui «imporre misure con lo scopo di prevenire nascite» su base etnica rientra per l’appunto nella categoria di genocidio.


Il silenzio dei Paesi musulmani
Il comportamento di Pechino è stato generalmente condannato dall’opinione pubblica internazionale, ma a colpire è stato soprattutto il silenzio dei Paesi musulmani, alcuni dei quali hanno persino rimpatriato in Cina gli uiguri presenti sul proprio territorio nazionale. È questo il caso dell’Egitto e più recentemente della Turchia, anche se entrambi i Paesi negano simili accuse.

Il basso profilo tenuto dai Paesi del Golfo, del Medio Oriente e del Nord Africa così come dagli Stati centroasiatici sulla questione dimostra chiaramente come gli accordi commerciali con la Cina e i relativi investimenti siano ben più importanti della sorte della minoranza musulmana dello Xinjiang. Solo per fare alcuni esempi, l’Arabia Saudita ha firmato da poco accordi per il valore di 70 miliardi di dollari con la Cina, il Pakistan per altri 60 e i Paesi dell’Asia centrale sono parte del più grande progetto della Nuova via della seta.

La stessa Organizzazione per la cooperazione islamica (Oic) non è riuscita a esprimere una condanna comune contro la Cina e nel 2019 Pakistan, Arabia Saudita, Egitto, Emirati, Algeria e altri Stati a maggioranza musulmana hanno bocciato la mozione dell’Onu che chiedeva l’invio di osservatori internazionali nello Xinjiang. Solo la Turchia aveva inizialmente condannato le mosse cinesi, per poi cambiare completamente atteggiamento in cambio di fruttuosi scambi commerciali. Sempre nel 2019, la Oic era persino arrivata a lodare Pechino per le misure contro il terrorismo e la radicalizzazione, facendo propria la narrazione cinese che vuole gli uiguri dei fanatici legati ad al-Qaeda e ai talebani. Per gli stati musulmani la fratellanza islamica ha meno peso degli investimenti di Pechino.

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