«C’erano visioni diverse dell’Europa». Queste sei parole di Emmanuel Macron certificano il vero, storico, fallimento epocale che si è consumato a Bruxelles: la fine definitiva del progetto politico dell’Europa federale. Con Mark Rutte e i suoi 5 “frugali” infatti ha trionfato il merito, il metodo e la sostanza di una “Europa delle nazioni”, ed è definitivamente naufragato il processo di costruzione di un governo europeo comune tanto caro alla narrazione europeista perseguita da Macron e da Angela Merkel.
Il pasticcio è quindi che abbiamo di fronte nei fatti un’Europa confederale, che però è intrisa di una ideologia, quasi una mistica, federale, di governo unico del continente. Retorica sparsa a piene mani in Italia dal Partito democratico e non solo.
Il tutto amplificato dal fatto che non siamo di fronte alla normale amministrazione, ma alla catastrofe economica e sociale provocata dal covid-19, la più epocale e disastrosa dell’ultimo secolo in tempo di pace. A fronte di una Merkel e di un Macron che difendono un progetto ambizioso di governo comune della catastrofe, Mark Rutte si è erto, imponendosi, come un De Gaulle in sedicesimo (meglio, in trentaduesimo) a difendere gli egoismi non solo della propria nazione, ma addirittura del proprio elettorato.
Alla visione di un destino comune europeo e di un operazione di investimento di fondi anti emergenza clamoroso e unitario, Rutte ha contrapposto la pretesa di un comando dell’Olanda e dei suoi associati sia sulla decisione, sia sul “freno a mano”, sulla possibilità di controllo di un solo paese sulla destinazione dei fondi.
E ha vinto, innanzitutto politicamente, perché ha costretto gli altri 22 paesi a subire la sua logica di difesa ad oltranza degli interessi nazionali, a scapito di quelli comunitari. Poi, di conseguenza, ha vinto anche sul piano economico perché i “frugali” si sono fatti letteralmente pagare il loro assenso al compromesso finale con ben 7,8 miliardi di rebates, di sconto a loro favore sui contributi che dovranno versare all’Europa.
Si capiscono naturalmente i commenti soddisfatti per il compromesso economico raggiunto, ma a fronte del successo sul piano economico, si erge disastroso il fallimento sul piano politico europeista. Dopo questa tornata feroce di trattative a Bruxelles si consolida la realtà di un continente di nazioni associate unicamente sul piano economico e monetario, in grado quindi di compromessi a questo livello, ma totalmente divaricate quanto a governance politica comune. Un’Europa associata, mai un’Europa unita.
Indignato, Le Figaro titola: «Incredulità e esasperazione degli europei a fronte dei metodi di Mark Rutte». Ma in realtà quei metodi sono sostanza di un premier, e dei suoi alleati, che intendono usare dell’Unione solo e unicamente per i propri interessi nazionali (incluso il dumping fiscale), del tutto disinteressati, anzi, avversari di istituzioni che governino unitariamente il vecchio Continente.
Naturalmente, a questo triste declino, definitivo, dell’idea di un’Europa patria comune, si è arrivati attraverso un percorso che parte da lontano. Determinante fu la sciagurata scelta del Consiglio d’Europa del 2000 di Nizza, che decise l’allargamento a paesi dell’Est totalmente digiuni di spirito europeista (e privi dei minimi parametri economici) che hanno annacquato sino a sfarinarlo l’afflato unitario dei paesi fondatori.
Catastrofico fu il fallimento della Convenzione europea del 2005 che dimostrò l’impossibilità di definire i principi fondanti di una Costituzione europea. Raffazzonato, di conseguenza, fu il Trattato di Lisbona che codificò, sul fallimento della Convenzione, un’Europa unita solo dalla moneta e dal mercato, ma divisa e differenziata su tutti i temi politici, dalla politica estera, alla politica fiscale (baricentro dell’unità politica dai tempi della Magna Charta), alla politica sanitaria (scelta disastrosa a fronte del covid) e dell’immigrazione (e l’Italia ne paga un prezzo drammatico).
Pur confortati dai 200 e passa miliardi che comunque aiuteranno l’Italia ad affrontare l’emergenza economica, non possiamo oggi che prendere atto della fine – ingloriosa – del progetto europeista che fu di Altiero Spinelli che ne previde accoratamente il possibile esito nel discorso pronunciato prima che il Parlamento europeo votasse il suo progetto di architettura istituzionale europea il 14 settembre 1983: «Avete letto tutti il romanzo di Hemingway in cui si parla di un vecchio pescatore che dopo aver pescato il pesce più grosso della sua vita tenta di portarlo a riva. Ma i pescecani poco a poco lo divorano e quando egli arriva in porto gli rimane solo la lisca. Quando voterà tra qualche minuto il Parlamento Europeo avrà catturato il pesce più grosso della sua vita, ma dovrà portarlo a riva. Facciamo quindi ben attenzione perché ci saranno sempre degli squali che cercheranno di divorarlo. Tentiamo di non rientrare in porto con soltanto una lisca».
Oggi, a 37 anni di distanza, lo squalo Mark Rutte ci consegna la lisca del sogno europeista. È indispensabile trarne le conseguenze.