Società per emulazioneIl problema non è la nuova generazione pseudo fascista, ma i genitori scemi che l’hanno educata

Il caso di Zaha, il giocatore ivoriano del Crystal Palace insultato da un dodicenne inglese, dimostra che la colpa non è tanto dei figli ma del contesto in cui crescono. Invece di arrestarli per odio razziale bisognerebbe mandare dallo psicologo chi li cresce

Afp

Quando avevo dodici anni mi mandarono dallo psicologo. Accantonate le battute sugli scarsi risultati ottenuti, perché non intendo parlare di me (non per le prossime dieci righe, almeno). Questa non è la mia storia, ma quella d’un dodicenne senza nome e di Wilfried Zaha, giocatore ivoriano d’una squadra di calcio londinese.

Domenica, Zaha pubblica, nelle storie del suo account Instagram da un milione di follower, un messaggio che dice d’aver trovato al risveglio. Se non avete idea di come funzioni: per andare a guardare i messaggi di quelli che non segui, e che quindi Instagram non ti notifica, devi andare ad aprire un’apposita casella. Dove c’è troppa roba anche se sei una persona normale, figurarsi se ti segue un milione di persone. E dove si trovano solo spiacevolezze anche se sei una persona qualunque, figuriamoci se sei un calciatore famoso. Ma non importa: Zaha sarà insonne, sarà annoiato, sarà militante, fatto sta che domenica mattina s’è messo a ravanare alla ricerca del cretino, e l’ha trovato.

I messaggi dicono «Sarà meglio che oggi tu non faccia gol, stronzo nero», e «Altrimenti mi presento a casa tua vestito da fantasma», segue foto del Ku Klux Klan. C’è anche un’immagine dell’account da cui sono stati inviati: ha 392 follower, e dal nome e dalla foto profilo (nonché dal primo messaggio, che comunque dice “black”, non “nigger” perché i dilettanti del razzismo comunicano con un lessico socialmente presentabile) si capisce essere tifoso della squadra contro cui Zaha giocherà quella sera.

Zaha pubblica, un dodicenne trema, la polizia vuole giustizia. Ah già, ho come al solito tralasciato la notizia. Il tifoso che Zaha ha ripescato nella posta filtrata ha 12 anni. Nel pomeriggio di domenica, viene arrestato.

Quella volta dallo psicologo, non avevo fatto nessuna delle cose piuttosto gravi che ho fatto da ragazzina (e che non vi racconterò qui onde non bruciarmi i tredici volumi d’autobiografia che intendo pubblicare nei prossimi decenni). I miei genitori, non esattamente due fulmini di guerra, non si erano allarmati abbastanza da chiamare uno psicologo per nessuno dei miei teppismi. Il crimine che aveva oltrepassato la soglia della loro premura era stato un reato di pensiero magico. Durante un litigio, avevo detto a mia madre «Ti venisse un cancro».

Invece di chiedere alla mia insegnante d’italiano come mai fossi così scarsa da cannare i tempi del congiuntivo, mi mandarono dallo psicologo. Non ricordo quasi niente della mia infanzia, ma ricordo la devastante consapevolezza d’essere figlia di due scemi (e di trovarmi nello studio professionale d’un terzo scemo, che non aveva chiesto loro come gli venisse in mente di fare analizzare me, invece di procurarsi un terapeuta per adulti).

All’epoca era una consapevolezza vaga, da grande ho messo a fuoco cosa non tornasse in quello scandalo. Intanto la fessissima idea che l’augurio d’un malanno contasse qualcosa. Poi l’idea che una dodicenne sappia cosa significa “cancro” (sì, sapevo che era una malattia terminale, ma cosa vuol dire “terminale” quando hai l’età in cui ti senti immortale?).

Infine, ma soprattutto: dove l’avevo sentito? Perché, se una dodicenne dice una frase così, la sta ripetendo. Uno psicologo capace avrebbe preso in cura mio padre, ogni tragitto in macchina col quale garantiva una decina di «ti venisse un cancro» (alla vigilessa che lo multava, al tizio che lo sorpassava, a quello più svelto di lui a infilarsi nel parcheggio). Esercitava su di me la potestà genitoriale uno che sbagliava i tempi dei verbi e credeva nel pensiero magico, e la società si preoccupava delle mie intemperanze.

Ora, che a mia madre venisse una malattia per i miei accidenti è probabile quanto che a casa di Zaha (che poi non ha segnato: ha vinto la squadra del dodicenne) si presentasse un ragazzino scemo vestito da Ku Klux Klan e pronto a bruciarlo.

Il passaggio più stupido del libro di Carlo Calenda è quello in cui dice che siamo l’unico paese al mondo (le affermazioni fesse cominciano spessissimo con «l’unico paese al mondo») «a dare pubblicità gratuita a ogni delinquente che disegna una svastica, invece di metterlo in prigione per un congruo numero di anni». Quando l’ho letto ho pensato prima che Calenda andrebbe rimandato a scuola, a studiare le leggi sulla libertà d’espressione in tutti i paesi che non sono il nostro; e poi che a questo disastrato tempo manca solo la prigione per i reati d’opinione.

Poi, nel paese ideale di Calenda, hanno arrestato per odio razziale un dodicenne che ha mandato a un tizio famoso un messaggio fesso. Devo inserire una nota dicendo che il razzismo è intollerabile, come ha twittato trionfante la polizia inglese, o possiamo darlo per scontato e dire anche che un dodicenne sì e no sa allacciarsi le scarpe e se ripete comportamenti che vede in giro è perché è fesso, non ancora perché è un criminale? Certo, magari lo diventa, facendogli passare un po’ di tempo in galera.

Magari era più utile mandarlo in collegio levandolo ai genitori, i quali chissà che meraviglia di educatori sono, per aver cresciuto un ragazzino che pensa che il KKK sia la soluzione a una partita di calcio. Magari, eh. Sono solo ipotesi. Valgono tutte.

Anche mettere in galera tutti i minori di trent’anni, età sotto la quale è raro non si sia fessi. Anche evitare alla gente famosa di stare sui social, a portata d’improperi di popoli smaniosi. Anche non regalare smartphone ai dodicenni, che difficilmente li useranno per studiare la storia e più facilmente per rendere noto al mondo che sono ontologicamente fessi. Sono solo ipotesi, tutte più convincenti di quanto mi convinca quella che mettere in galera un dodicenne sia una soluzione, e non un problema.