Sono le quattro. Oppure sono le otto. Oppure è mezzanotte. È un’ora qualunque alla quale sono sveglia come tutte le ore delle ultime due settimane.
Fermi.
So cosa state per dire.
Che devo prendere un sonnifero. Che non devo prendere un sonnifero. Che devo andare a letto sempre alla stessa ora. Che devo restare a letto immobile anche se non mi addormento. Che se non mi addormento devo alzarmi. Che non devo dormire di giorno. Che devo scaricare la tal app per la meditazione.
Ci sono due cose che dovete sapere degli insonni.
La seconda è che, qualunque cosa diciate, è quella sbagliata. L’insonne vuole parlare solo della propria insonnia, e con una dovizia di particolari che viene battuta in noia solo da chi vi racconta i sogni (potrei unire i due formati: ieri notte mi sono illusoriamente addormentata per pochi minuti, e in quei pochi minuti ho sognato Proust. Me ne vergogno talmente tanto che agli amici ho detto d’aver sognato Bombolo).
Dicevo: l’insonne vuole parlarne, ma non vuole i vostri consigli. Li ha sentiti tutti. Sono tutti sbagliati. D’altra parte, esistesse un consiglio risolutivo, non esisterebbero più insonni.
La prima cosa che dovete sapere è che l’insonne mente.
Solo il fissato con le diete, quello che giura d’essere a digiuno da tutto il giorno, giorno in cui ha pucciato una pagnotta intera nella pentola del sugo, e finge così completamente che arriva a fingere che è un languorino quel languorino che davvero sente, solo lui mente quanto l’insonne.
Per l’insonne l’insonnia non è mai abbastanza; egli è come quelle case editrici che, non sazie d’avere un libro che vende bene, comprano spazi pubblicitari dichiarando un numero di copie triplo di quello davvero venduto.
Anche io vi ho mentito. Vi ho detto che sono due settimane che non dormo, ma non è vero. A metà di queste due settimane, una notte mi sono addormentata a un’ora civile, e quando il giorno dopo mi sono svegliata il telefono diceva che erano le tre di pomeriggio. Ho creduto la maledizione fosse finita, e invece era solo una sosta.
La notte dopo eccomi di nuovo lì, a giocare a pallini, riscrivere libri che non pubblicherò mai, guardare film orrendi, fare tutte le cose che si fanno da insonni.
Molte vite fa, quando dormivo il sonno non so se dei giusti ma di sicuro dei giovani, mi raccontarono che Keith Richards faceva così, stava sveglio per giorni e poi crollava in un letargo non programmato. Ci separa il dettaglio che Keith Richards nel letargo si sveglia, compone Satisfaction, si riaddormenta, e la mattina dopo se la trova nel registratore senza ricordarsi d’essersi svegliato. Non mi dilungherò su come siano le cose che scrivo la notte; vi basti sapere che, rilette di giorno, nessuna di esse s’è mai rivelata Satisfaction.
Poi certo, c’è anche la (sono soprattutto femmine) non insonne che mente. Perché l’insonnia è una grande posa femminile. Si coordina perfettamente col vittimismo (il colore che sta meglio all’incarnato femminile). Il peso del mondo sulle mie spalle, e neanche ho dormito. Mio marito non raccoglie i calzini, e neanche ho dormito. Il mio capo promuove il vicino di scrivania e non me, e neanche ho dormito. (Lo promuove perché il vicino non lo annoia con le cronache della sua insonnia, plausibilmente).
Ogni volta che si parla di sonno, spiego che non odio nessuno come quello che, all’inizio d’una relazione, si dimenticò di disattivare la sveglia, e la domenica mattina suonò, e lui – bovino come sanno esserlo gli uomini senza inconscio – la spense e si riaddormentò, e io ovviamente mai più, perché rigirarmi e riaddormentarmi è un dono che ho perso intorno ai trent’anni. Ogni volta racconto quest’episodio con un così vivido rancore che gli interlocutori mi chiedono da quanti quarti d’ora sia accaduto. Ogni volta rispondo serena: Era il 2006, ma voglio ancora prendere la patente solo per investirlo con la macchina. (Gli interlocutori a quel punto fanno tre passi indietro come neanche se tossissi senza mascherina).
Chi si rigira e si riaddormenta non capisce i tormenti di noi per cui il sonno è la roba verghiana, di noi che se ce lo sottrai ti portiamo rancore a vita, di noi che siamo contrari alla pena di morte tranne che per il vicino del piano di sopra, quello che non mette i feltrini sotto alle sedie e ogni volta che ne striscia una io mi sveglio.
Non ricordo niente. Credo dipenda dalla mancanza di sonno, da giovane avevo una memoria prodigiosa, e adesso passo il tempo a mandare messaggi ad amici così buoni da farmi da badanti. Chiedo «come si chiamava coso che ha fatto il film di cosa, quello che erano fratelli e aveva il cancro», e loro capiscono cosa intendo. (Scrivessi un manuale per insonni, il primo consiglio sarebbe: È molto importante avere amici che dormano dieci ore per notte e sopperiscano alla vostra mancata lucidità. Li invidierete, ma saranno preziosi).
Non ricordo i nomi degli ex fidanzati né quelli dei figli delle amiche, non ricordo il pin del bancomat né la password della posta, non ricordo se ho letto un libro o visto un film, non ricordo di portare le cose al lavasecco o di ritirarle.
Non ricordo niente, ma ricordo ogni clacson per strada, televisore a volume zotico al piano di sopra, passante litigioso sotto la finestra, amante socievole dentro casa, vibrazione di telefono che m’ero dimenticata di spegnere, bambino urlante nella stanza d’albergo a fianco: ricordo tutti quelli che m’hanno svegliata, sottraendomi a quel sonno prezioso e raro che ero finalmente riuscita a conquistarmi, li ricordo tutti e li odio tutti e sono certa che tutti loro siano gente che si rigira e si riaddormenta. Non comporranno mai Satisfaction, ma questo non mi consola.