La crisi economica che si è sovrapposta all’emergenza sanitaria ha portato licenziamenti, aumento della disoccupazione, chiusura di molte aziende. In tempi di crisi, però, nascono nuove opportunità di mercato: never waste a crisis, si dice in gergo finanziario.
Alcune aziende hanno dovuto e saputo reinventarsi in base alle nuove esigenze. A Seregno, provincia di Monza e Brianza, c’è un piccolo birrificio artigianale – Railroad Brewing Company, nato nel 2013 – che produceva e vendeva birra prevalentemente attraverso il canale HoReCa (Hotellerie-Restaurant-Caffè).
«Quel canale – dice a Linkiesta uno dei soci, Benedetto Cannatelli – si era bloccato, così ci siamo interrogati sul nostro modello di business per capire dove e come l’azienda intendeva creare valore. Abbiamo cambiato i flussi di incasso spostandoci sulla vendita diretta al consumatore finale, banalmente adesso si può venire qui di persona, si mangia e si consuma la nostra birra. E siamo riusciti perfino ad aumentare il margine di profitto rispetto al passato».
L’esempio del piccolo birrificio di Seregno può produrre un insegnamento generale. Cannatelli, che è anche ricercatore in economia aziendale all’Università Cattolica di Milano, spiega: «Modificando alcune leve del modello di business, cambiando il target o il canale di vendita o altri elementi, si possono creare effetti positivi su ricavi e costi, generando marginalità superiori. Sembra un giochino ma non è così scontato».
I fattori da tenere in considerazione, soprattutto durante un’emergenza, sono molti: dipende ad esempio dal mercato in cui si è inseriti, se la crisi lo azzera del tutto o rimane comunque attivo; dipende anche dalla flessibilità dell’azienda, solitamente una caratteristica delle piccole attività, che possono modificare il loro modus operandi in maniera più rapida rispetto a una grande impresa. Nel caso del birrificio di Seregno è stato semplice quanto incontrarsi, guardarsi negli occhi e dire «da domani si cambia».
Come spiega a Linkiesta Marco Arcari, professore di Business planning e start-up d’impresa all’Università di Milano: «Per una risposta facile dovrei dire che, secondo la teoria classica, le aziende più danneggiate sono quelle con i costi fissi più elevati. Ma più in concreto penso che le siano colpite soprattutto quelle incapaci di modificare il loro modello di business, mancando di reattività. Oggi un esempio evidente è quello dei negozi che si basano solo sulla vendita nei luoghi fisici e non sono stati capaci di modificare la loro offerta con l’ecommerce».
Non solo è possibile tenere in piedi la propria attività modificando alcuni parametri dell’azienda, ma in una situazione di emergenza è possibile avviare un nuovo business. Lo racconta, ancora, Benedetto Cannatelli, che nelle prossime settimane finalizzerà il lancio di una distilleria che produrrà soprattutto whisky (un prodotto che in Italia ha un mercato relativamente ridotto prevalentemente di importazione). «Prima del lockdown eravamo a metà dell’investimento, ma non abbiamo avuto molti dubbi sulla possibilità di andare avanti, un po’ perché l’esperienza del birrificio ha creato fiducia, un po’ perché è una nicchia di mercato dove adesso ci saranno ancor meno competitori», dice.
Tra i vantaggi di investire in una fase di crisi, per chi può cogliere l’opportunità, infatti c’è proprio la minor concorrenza sulla piazza. Ma non solo: l’emergenza può modificare le esigenze dei clienti ampliando alcuni segmenti di mercato – non sarà il caso del whisky -, o magari può ridurre le barriere e i costi per immettersi in quel mercato.
Come dice Marco Arcari: «In un’emergenza come questa le criticità sono diverse e lo abbiamo visto con le tante chiusure di aziende, con i licenziamenti e tutto quel che sta accadendo in un mercato del lavoro già in difficoltà. Ma per chi può investire le opportunità sono maggiori delle criticità. Però bisogna saper intercettare la nuova tendenza, quindi non andare mai “contro il mercato in difficoltà”, ma ingegnarsi per cercare un’opportunità anche in un mercato con andamento negativo».
In questi casi, però, è utile tenere a mente un corollario non trascurabile sulle ambizioni iniziali di un’azienda che nasce o punta a crescere in una situazione di crisi, dice Arcari: «La favola della start-up che arriva a esporre il proprio prodotto/servizio al mercato generalista non è più credibile, è frutto di una letteratura americana. In Italia lo spazio di mercato per chi si rivolge al consumatore finale è riservato solo a chi dispone di budget milionari per il marketing. Meglio concentrarsi sul proprio segmento, pochi clienti ma redditizi. Poi nulla preclude che una volta giunti a generare profitti si possa tentare anche un altro percorso».