«L’immagine dello chef furioso, pronto a sbraitare e attaccare tutti nella sua cucina sta cambiando». Dice Alicia Kennedy, giornalista e scrittrice che racconta l’evoluzione della cucina e della gastronomia su diverse riviste – tra cui New Republic e Time – e nel podcast Meatless, nel quale intervista chef, cuochi, giornalisti.
Kennedy ha parlato a Linkiesta dell’evoluzione della figura dello chef e della sua immagine di personaggio autoritario e aggressivo. «Non possiamo sapere come saranno gli chef tra qualche anno, considerando anche che certi atteggiamenti sono radicati nelle cucine. Ma ora se ne sta parlando molto, è riconosciuto come un tema, grazie soprattutto a chi lavora in cucina e ha denunciato il problema».
Adesso c’è una consapevolezza diversa da parte dei componenti di una brigata. E, come scrive Tejal Rao sul New York Times, ovunque c’è una spinta, più o meno forte, al cambiamento: «Per decenni lo chef è stato la stella al centro della cucina, unico responsabile del successo del ristorante. Tutti gli altri, cuochi di linea, camerieri, lavapiatti, persino i commensali hanno fatto da sfondo. Ma la narrazione dello chef autoritario sta svanendo – sostiene Rao – dal momento che i lavoratori della ristorazione si stanno organizzando e parlano apertamente atteggiamenti dannosi, di boss tossici e di iniquità nelle retribuzioni e nei benefit».
L’immagine dello chef che assomiglia al sergente Hartmann di Full Metal Jacket, quello che urla imbizzarrito come fa, o faceva, Carlo Cracco, quello dei piatti lanciati contro le pareti à la Gordon Ramsay è stata a lungo promossa dai programmi televisivi e dalla letteratura. Ma adesso c’è una spinta “dal basso”, quella indicata da Alicia Kennedy (e dal New York Times), che sta contribuendo a un cambiamento radicale di prospettiva.
Gli orari proibitivi, i ritmi serrati, le angherie degli chef sono diventati in qualche modo parte integrante della vita in cucina, almeno nell’opinione pubblica. Come in tutti i luoghi in cui si lavora sotto pressione i modi autoritari possono essere accettati, ma solo entro certi limiti.
Così oltre a una maggior consapevolezza di chi lavora in cucina c’è stato uno cambio anche da parte della nuova generazione di chef.
Uno dei primi a uscire allo scoperto, nel 2015, era stato René Redzepi, nativo di Copenaghen e chef del ristorante Noma nella capitale danese. In un articolo pubblicato su Mad aveva raccontato la sua epifania: come era passato da un atteggiamento rude a uno più morbido.
«Quando ho aperto il mio ristorante, con il mio investimento e il peso delle aspettative, sentivo qualcosa ribollire in me, fin quando il primo coperchio non è volato via. Allora ho iniziato ad andare in escandescenze per ogni minimo errore in cucina. Mi avevano trattato così da giovane e stavo facendo lo stesso. Ho bullizzato i miei cuochi, ho urlato, spinto, sono stato un capo terribile. Una volta ho urlato così tanto con una ragazza colombiana che lavorava per noi che a fine giornata il mio sous chef mi ha fatto notare che avevo esagerato. Lì ho iniziato a realizzare che il mio comportamento stava danneggiando alcuni membri del mio staff e li stava influenzando a comportarsi allo stesso modo con chi stava sotto di loro. Chi vuole andare a lavorare arrabbiato ogni giorno?».
La confessione di Redzepi rispecchia proprio il cambiamento in corso, quello della nuova generazione di chef che può o prova a tracciare una linea di separazione rispetto al passato.
Lo spiega a Linkiesta Giancarlo Perbellini, chef classe ‘64 che ha iniziato giovanissimo, negli anni Ottanta, imparando il mestiere in Francia, in tutt’altro contesto: «La disciplina in una brigata è fondamentale. Una certa dose di autorevolezza o di autorità da parte dello chef deve esserci. La differenza è che quando ho iniziato io c’era un rigore maniacale quasi eccessivo. In Francia c’era più gerarchia, un certo nonnismo. Anche perché un italiano in cucina era una rarità, noi eravamo “Les Italiennes”, usato come dispregiativo. Ora i tempi sono molto cambiati, adesso se vai in Francia il 30 per cento delle brigate sono composte da italiani e gli chef hanno un atteggiamento più umano».
Oggi i casi virtuosi non sono pochi, e non rientrano più nel rango di eccezioni. Ne cita uno in particolare il New York Times: «Il Somni è un piccolo bar a ferro di cavallo all’interno dell’hotel Sls di Beverly Hills. Lo chef, Aitor Zabala, ha stampato un menù in cui sono citati tutti quelli che partecipano al servizio della serata. I camerieri erano Josue Rodriguez e Mario Alarcon. Il lavoro dettagliato sul cioccolato era di Ivonne Cerdas e Lindsey Newman. Circa un’altra dozzina di cuochi aveva lavorato a un menu di 27 portate, e ognuno di loro era segnato nell’elenco come il cast e la troupe nei titoli di coda di un film. Zabala ha motivato la cosa spiegando che tutto il team deve sentirsi responsabilizzato e legato al ristorante. Un gesto piccolo ma eloquente, che esorta i commensali a considerare il ristorante nel suo insieme».
Il mito dello chef si è diffuso moltissimo grazie alla televisione, dice Perbellini: «Prima del boom dei programmi tv lo chef faceva un lavoro normale, non era un personaggio famoso. Fino alla fine degli anni Settanta, inizio anni Ottanta l’alta gastronomia era appannaggio solo di alcune piazze, come Londra, New York, Parigi, «in Italia ancora non c’era o stava arrivando lentamente, prima con San Domenico a Imola, poi Gualtiero Marchesi, poi gli altri. Noi andavamo all’estero a conoscere questo mestiere e quell’unico modello di chef da prendere come esempio», prosegue Perbellini.
E quell’esempio è diventato poi il terreno in cui certi atteggiamenti si sono radicati e sono stati tramandati. Lo aveva spiegato due anni fa il critico culinario del Guardian Jay Rayner, quando aveva criticato duramente Gordon Ramsay riprendendo un video con le sue sfuriate: «Questo è quanto di più sbagliato ci possa essere sulla cultura culinaria. Poiché ha subito certi comportamenti da giovane, Ramsay ora pensa di doverli replicare così da far ripartire il ciclo con chi viene dopo. In questo modo sta “glamourizzando” il bullismo».
Le portate imperfette che Gordon Ramsay fa volare per tutta la cucina e gli “svenimenti di rabbia” che ha lo chef americano di origini coreane Daivd Chang quando il servizio non è impeccabile, si inseriscono perfettamente nel solco tracciato dei loro maestri. Ma in questo caso viene fatto con la visibilità di programmi televisivi che contano milioni di follower in tutto il mondo.
«È una mentalità molto tossica. Le grida, gli scatti d’ira, possono starci se occasionali, è naturale in un ambiente in cui si vive sotto pressione. Ma mai dovrebbe essere considerato normale e non dovrebbe essere esaltato come un valore né reso glamour», dice Alice Kennedy.
Dall’altro lato va detto che questi programmi tv non possono essere demonizzati, e che il loro impatto sugli spettatori ha contribuito a creare una cultura culinaria e a diffondere molta informazione sull’alimentazione. Soprattutto cambiando la percezione del lavoro dello chef: «Da un lato la tv – dice Perbellini – ha aiutato a diffondere tante cose che prima gli spettatori avevano più difficoltà a imparare. Adesso chi segue i programmi di cucina sa perfettamente, per fare esempio semplice, cos’è un taglio alla julienne. È una cosa conosciuta da tutti, prima non era così. Dall’altro lato ha creato dei falsi miti e delle fantasie particolari. C’è molta gente che è disposta a lasciare il lavoro pur di fare lo chef, senza mai essere stato in una grande cucina».
Per essere un chef di successo, oggi e in futuro, forse serviranno altre qualità rispetto a quelle viste in tv nell’ultimo decennio, quello più mediatico per la gastronomia. Il cambiamento nelle cucine è già in atto ed è guidato da una doppia spinta: da chi lavora in cucina e non può più accettare angherie insostenibili dei suoi superiori, ma anche, se non soprattutto, dagli chef che cambiano l’imprinting del loro lavoro, modificando anche il racconto che viene fatto in tv o nella letteratura.
Come aveva scritto Redzepi, con lungimiranza, qualche anno fa: «Con la celebrità aumenta anche la responsabilità. Adesso il pubblico da noi si aspetta sempre di più. È il momento di dare il buon esempio».