«Mi sembra di aver fatto un salto indietro di dieci anni. Per mia madre sono tornata ad essere una figlia da accudire. È dura, a quasi quarant’anni, pensare di non poter provvedere a me stessa».
Se il futuro spezzato dei giovani d’oggi si potesse sintetizzare in una frase, sarebbe questa. A pronunciarla all’altro capo del telefono, in un caldo pomeriggio di fine luglio, è Lisa (nome di fantasia), 38enne della provincia di Napoli. Dopo vent’anni di lavoro nel turismo, di cui dieci lontano da casa, a Roma, da giugno è tornata a vivere in famiglia. Troppo compromesso il suo settore, troppo caro l’affitto del suo monolocale, troppo pochi i soldi in tasca: lì dove non ti ammazza, il coronavirus ti mette in ginocchio economicamente.
«È stata una scelta obbligata, se non volevo dare fondo ai miei risparmi. L’azienda mi ha messo in cassa integrazione a inizio marzo, ma ancora non ho visto un euro. I dirigenti però non li hanno toccati», spiega Lisa a Linkiesta. «In verità c’era aria di crisi già da prima del lockdown, per cui mi ero portata avanti, dando la disdetta al mio padrone di casa. A marzo è come se avessi predetto il mio stato attuale: me lo sentivo che non sarebbe stata una cosa breve».
Il rientro a casa è stato pesante. «Le prime settimane sono state molto dure. Mia madre mi dà da mangiare e un tetto sopra la testa, ma non mi sento di chiederle di più, anche se lei sarebbe disponibile», dice Lisa. Di colpo, la vita si è fermata. «E dire che non ho figli, né un compagno, solo per questo ho potuto prendere questa decisione. Ma non oso immaginare in che stato si trovi chi ha perso il lavoro ed ha famiglia».
Che il coronavirus abbia messo in ginocchio le generazioni più giovani è un fatto globale. Secondo la società immobiliare Zillow, negli Stati Uniti sono 2,7 milioni i giovani adulti che sono tornati a vivere con i genitori o i nonni fra marzo e aprile, per un totale di 32 milioni di persone. In Italia, le statistiche lasciano intuire che il trend non sia molto diverso.
Secondo un recente rapporto di Nomisma, all’uscita dal lockdown a maggio 1 trentenne su 5 denunciava il deterioramento della propria situazione occupazionale, e il 44% degli under 40 era in difficoltà ad affrontare almeno tre voci di spesa (bollette, canone di affitto, rate dei finanziamenti). In totale, rileva Nomisma, sono oltre 3 milioni gli italiani che durante il lockdown hanno gestito con tribolazione le finanze familiari. L’affitto è il tasto più dolente: a inizio maggio un terzo dei locatari, il 33%, si dichiarava in difficoltà per il pagamento del canone mensile. E il 40% ha persino dovuto ridimensionare la spesa alimentare.
Secondo i dati dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, oltre il 55% dei trentenni ha dichiarato di sentirsi più a rischio per il lavoro rispetto a prima della crisi, e oltre il 60% dice di vedere pregiudicati i propri piani per il futuro. Considerando che già a fine 2018 ben il 70% degli under 30 erano tornati ad abitare a casa con i genitori (erano 7 milioni i giovani che in quell’anno vivevano ancora in famiglia, secondo i dati Istat), è probabile che con l’avvento del coronavirus questi numeri siano cresciuti ancora di più.
«La pandemia ha colpito un’Italia già in difficoltà, ma soprattutto si è abbattuta su una generazione che per larga misura dipendeva economicamente dai genitori anche prima. E questo vale non solamente per gli under 25 ma anche per i 30-34enni, la fascia in cui uno dovrebbe essere già indipendente dalla famiglia di origine e impegnato nella realizzazione dei propri progetti di vita», spiega a Linkiesta Alessandro Rosina, demografo dell’Università Cattolica di Milano e coordinatore scientifico dell’Osservatorio Giovani.
Se a inizio anno i giovani italiani sembravano propensi a intraprendere alcuni dei progetti tipici del passaggio alla fase adulta – oltre il 30% pensava di andare a vivere per conto proprio o a convivere; il 24% di sposarsi; il 27% di avere un figlio; il 52% di cercare un nuovo lavoro – questi progetti sono stati abbandonati. E lo scarto rispetto ad altri paesi, per esempio rispetto ai giovani tedeschi, arriva fino a 20 punti percentuali.
«Da quelli che non avevano una posizione solida e si sono trovati a non avere più un’autonomia economica, quelli che avevano lavoro ma non avevano ancora formato un proprio progetto di vita, a quelli che sono tornati nel luogo di origine utilizzando le forme dello smart working, tutte queste condizioni hanno avuto come risposta un annullamento rispetto all’autonomia che stavano conquistando», puntualizza Rosina.
Gli effetti rischiano di andare al di là del superamento della pandemia. Quello di cui parla l’Osservatorio è infatti un vero e proprio “rischio tsunami”, in cui «serviranno anni prima che il Paese e le persone riescano a fissare nuove coordinate di riferimento all’interno delle quali collocare il proprio percorso di sviluppo e le proprie scelte di vita».
«Psicologicamente, il fatto di tornare a casa e di rimettersi i panni del figlio, anziché in quelli di pieno cittadino, rischia di portare ad un adattamento al ribasso delle proprie ambizioni, depotenziando le energie e la voglia di conquistare determinati obiettivi. L’impatto della crisi sanitaria ha dimostrato l’incapacità del paese di saper difendere gli strumenti che consentono ai giovani di conquistarsi un’autonomia», spiega il demografo.
Ad un già epocale ritardo nel trovare un’occupazione stabile e l’uscita da casa, la mortificazione della condizione giovanile rischia poi di riflettersi sui già bassissimi livelli di natalità, contraendo ulteriormente le prospettive di un paese sempre più longevo e sempre più anziano, in cui le nuove leve non avranno risorse per sostenere il sistema pensionistico né tantomeno per assistere le proprie famiglie, in un vortice di impoverimento continuo.
«Gli ultimi dati Istat mostrano chiaramente che l’ascensore sociale non solo non sale più, ma sta scendendo, con un ceto medio che vede le proprie condizioni peggiorare sempre più. Se questa è la prospettiva, non sono solo i 30enni che perdono la possibilità di dimostrare quanto valgono, ma tutta la società ne risente. E questo vale ancora di più per i ventenni», dice Rosina.
Se l’estero è l’unica soluzione
Jessica (nome di fantasia) ha 28 anni e da tre lavora in un’agenzia media di Milano, settore marketing, con un contratto a tempo indeterminato. All’inizio del lockdown ha deciso di andare dai suoi, semplicemente per non dover stare da sola. Vive per conto suo ormai da 4 anni. «L’esperienza che ho fatto a Londra mi ha cambiato, una volta che esci di casa non torni più indietro», racconta a Linkiesta.
La decisione di trascorrere un periodo a casa è stata anche economica, «per risparmiare un po’ sulle bollette ed evitare di dover fare la spesa senza ticket», racconta Jessica. La cassa integrazione, per lei, è arrivata a maggio. «Ci ho messo un mese e mezzo per decidermi a tornare di nuovo dai miei, dopo che ero già rientrata a casa mia. In quarantena era diverso. Adesso l’idea mi spaventa un po’».
Malgrado in azienda non abbiano ancora reintegrato nessuno (non è chiaro se succederà), Jessica considera il rientro come una cosa temporanea. «L’idea è di fermarmi lì per circa un mese, e poi se riesco di tornare all’estero. Se ci sarà la possibilità di continuare a lavorare da remoto, farei la nomade in giro per l’Europa. Se ritorna la quarantena potrei restare bloccata non so dove, ma è nei piani», racconta. Unica cosa certa è che anche a lei il lockdown ha cambiato i programmi: «Se penso che il piano per quest’anno era comprare casa… per il momento mi faccio una vacanza, poi a settembre si vedrà».
L’incertezza che domina il tempo attuale impedisce di fare qualsiasi genere di progetto. «A me non dispiacerebbe restare nella mia terra, ma un lavoro dove lo trovo adesso?», dice Lisa. «Per lavorare nel mio campo ed evitare di perdere tutto il know how costruito in questi anni, bisogna aspettare. Ho anche pensato di reinventarmi in un’altra professione e di mettermi in proprio, non ho più voglia di dipendere da nessuno. Ma adesso è troppo presto per prendere decisioni definitive».
La preoccupazione si mescola ad un grande senso di attesa per quello che sarà. «La pandemia potrebbe essere considerata un’occasione per operare una discontinuità e fare finalmente delle scelte di sviluppo e crescita che valorizzino il capitale umano delle nuove generazioni», dice Rosina. «Questa è l’ultima occasione per iniziare una fase diversa che cambi le condizioni che c’erano prima».
Se non dovesse succedere, però, l’esperto prevede che il flusso dei giovani verso l’estero tornerà a crescere. «In un paese che non consente la mobilità sociale, l’unica possibilità per i giovani è mobilità territoriale. Se nel luogo dove sono non trovano le condizioni per realizzarsi, vanno altrove. È ciò che abbiamo visto durante il lockdown. Una mobilità sociale bloccata significa o tornare a dipendere dai genitori, o andarsene molto, molto lontano».
«A quasi 40 anni si ha anche il timore di non essere più considerati lavorativamente. Magari sarò costretta a ricominciare da capo da un’altra parte. Mi auguro di no, perché non sono più una ragazzina. Però sarei pronta anche a quello», ammette Lisa.
Così, quella che normalmente è una scelta legata all’età della transizione, l’opzione di trovare opportunità fuori dall’Italia, in un mondo dove è sempre più facile andare via, sta diventando e diventerà sempre più valida anche per le generazioni più mature – «fino anche ai 50 anni», puntualizza Rosina.
Una generazione invisibile
In un paese dove le nuove generazioni sono ormai abituate all’avvilimento quotidiano dell’incertezza, l’unico modo per prevenire il fenomeno sarebbe di mettere in campo strumenti concreti per il sostegno ai giovani. «Servono politiche che investano sul binomio formazione-lavoro, invertendo la rotta», dice Rosina.
Ma se qualche iniziativa è stata messa in campo – numerose sono ad esempio le notizie di abbassamento delle tasse universitarie, onde contrastare il crollo degli iscritti, e dell’offerta di alloggi per studenti a prezzi agevolati, per sostenere il mercato degli affitti – queste misure appaiono come interventi all’acqua di rose, tutt’altro che risolutivi.
«Quand’è che in questo paese ci accorgiamo delle difficoltà? Quando tutto quello che per il mercato è conveniente rischia di venire a mancare. Così se mancano gli iscritti all’università che paghino le rette, solo a quel punto si cerca di capire il perché, e se i giovani non vanno nelle grandi città e gli affitti crollano, solo allora ci si chiede come facciamo ad attrarli di nuovo», dice Rosina. «Ma la parte sommersa, quella che non viene nemmeno presa in considerazione perché non c’è nessuno che ne ha convenienza, resta», dice Rosina.
Il futuro dei giovani costretti a rientrare a casa (e non solo il loro) rimane così, ancora una volta, preda dell’incertezza. «Io che ho iniziato a lavorare all’inizio degli anni 2000 vedo che questa crisi è totalmente diversa rispetto a quella passata, è più complicata. Le azioni che il governo ha proposto all’inizio potevano sembrare utili. Poi ci si è persi nella burocrazia e quelli che sembravano aiuti, al netto di chi ne ha approfittato, sono andati a vuoto», commenta Lisa.
«In Italia manca il mettersi dalla parte dei giovani stessi. I ragazzi hanno bisogno di autonomia, servono affitti adeguati e percorsi che li sottraggano dalla dispersione scolastica. Se non ci sarà la capacità di rimettersi in corsa, rimarremo un paese con alto debito pubblico, una popolazione anziana e zero possibilità per le nuove generazioni», conclude Rosina. «Dobbiamo iniziare a pensare in maniera diversa cose che interpretiamo in modo scontato, i fenomeni vanno letti e interpretati in modo diverso. Bisognerebbe partire a valle, dai giovani stessi. Mentre noi ci mettiamo sempre a monte. Ma così vediamo solo un pezzo della realtà».